giovedì, 25 Aprile 2024

Il problema della “democrazy”: come funzionano i regimi ibridi?

Freedom House, un’organizzazione di ricerca non-governativa specializzata nello studio dei regimi, mantiene continuamente aggiornato sul proprio sito il cosiddetto Freedom Rating, uno strumento che attribuisce a ciascuno stato un punteggio, da 1 a 100, definendone il livello di democrazia.

La sua valutazione si basa sulla somma di due punteggi. Un primo, da 1 a 40, riguarda i political rights e si focalizza sulla qualità procedurale della democrazia. Un secondo, da 1 a 60, dà un punteggio alle civil liberties e dunque al rispetto, da parte dello stato, di un’ampia gamma di diritti della persona. I due punteggi si inseriscono dunque in una tabella apposita che, pesando i due risultati, attribuisce un giudizio al regime in questione: not free (autoritario), partly free (regime ibrido) e free (democrazia). Ad oggi, secondo il Freedom Rating, 60 paesi al mondo sono partly free, ossia quelli che tecnicamente vengono chiamati regimi ibridi.

Altri 66 vengono classificati come not free, e i restanti 84 come free e, dunque, come piene democrazie. Facendo le somme, si ha subito una brutta notizia: la democrazia è in minoranza. Se ne contano 84, a fronte di 126 regimi di altro genere. Poi, guardando meglio, ci si consola un po’: dei 126 regimi non-democratici, la metà circa è rappresentata da regimi ibridi. Essi hanno punteggi più alti e, sebbene non perfetti, sembrano decisamente più affidabili di “stati canaglia” quali Iran o Corea del Nord. Ma è davvero così? Purtroppo no. La realtà dei fatti è ben più fosca. Addirittura, la ricerca accademica sul tema tende a sostenere il contrario: dal punto di vista della performance politica e del contenimento della violenza, un regime ibrido funziona peggio di un autoritarismo.

Cos’è un regime ibrido?

La presa di coscienza sulla problematicità dei regimi ibridi è un tratto piuttosto recente della ricerca. La loro posizione intermedia tra autoritarismo e democrazia li rende elementi strani, talvolta imperscrutabili. Di fatto, si possono descrivere solo per negazione, ovvero spiegando ciò che non sono. E allora li si chiama “democrazie parziali”, “democrazie zoppe” oppure, dall’altro lato, “dictablanda” nel senso di “dittatura calmierata”. Il range che li contiene è ampio: per capirsi, si va dai 35 punti della repressiva Mauritania ai 69 punti dell’Ungheria, membro dell’UE.

Capire il funzionamento di un così ampio spettro di paesi è fondamentale per comprendere l’attuale situazione internazionale. Un esempio chiaro è la Russia. Per Freedom House, il regime putiniano è un paese not free, con un punteggio di 17: questa condizione sussiste dal 2004, mentre in precedenza (dal 1991 in avanti) era classificato come partly free. Un altro indicatore molto rilevante, il Polity V di PolityProject, definisce invece la Russia come open anocracy, ovvero come regime ibrido. L’Ucraina, a sua volta, è considerata partly free da Freedom House e democracy secondo Polity.

La spinta occidentale

Molte delle dinamiche che oggi vediamo in atto sono conseguenza delle disfunzionalità intrinseche dell’ibridità di regime. In generale, il fenomeno è divenuto rilevante a seguito della cosiddetta “terza ondata di democratizzazioni”, teorizzata da Huntington a proposito del periodo 1974-1991. A differenza delle precedenti ondate, tuttavia, questa fu particolare. Essa interessò soprattutto paesi del Terzo Mondo e fu promossa con forza dall’Occidente. La comunità internazionale tendeva ad accontentarsi di una democrazia di facciata, al rispetto di alcuni indicatori di performance elementari come la presenza di elezioni.

Di conseguenza, molti paesi precedentemente autoritari effettuarono la transizione, ma non la completarono, ritrovandosi invischiati in un ibridità che, non di rado, si rivelava persino più disfunzionale dell’autoritarismo puro.  Risulta così evidente la necessità di un’analisi accurata che metta luce su cosa sia un regime ibrido, come nasca, come si evolva, come eventualmente finisca, da cosa sia sostenuto, quali siano i suoi tratti funzionali e quali i suoi tratti disfunzionali.

Regimi ibridi e bottom billion

Una delle analisi più efficaci sul tema è quella proposta da Paul Collier nel suo libro Guerre, armi e democrazia. Il focus, in questo caso, è posto sui paesi del cosiddetto bottom billion (l’ultimo miliardo), altamente disfunzionali per via di una serie di trappole dello sviluppo in cui, presto o tardi, questi paesi cadono sempre, vuoi per scelta vuoi per cause strutturali: trappole geografiche (paesi landlocked, oppure dipendenti da un vicino potente); trappole dimensionali (paesi piccoli con un’economia piccola che disincentiva l’investimento estero); trappola delle risorse (paesi con ampia disponibilità di risorse quali miniere di diamanti o di cobalto, che attraggono “predatori” e disincentivano il paese stesso a diversificare e migliorare); trappola del conflitto (paesi in cui c’è stata o c’è una guerra armata, che può ricadere nel conflitto da un momento all’altro).

Questi stati, spinti dalla comunità internazionale, hanno adottato negli ultimi quarant’anni sistemi all’apparenza democratici. Il problema, come si è visto sopra, è che la democratizzazione è stata solamente un’operazione di facciata. Ha soddisfatto i finanziatori occidentali e ha ammantato il paese di un’aurea democratica, ma sotto il tappeto la polvere è ancora tutta lì. Secondo Collier, questa nuova classe di regimi ibridi mantiene intatti tutti i precedenti problemi dell’autoritarismo, e in più ne crea di nuovi dovuti alla sua struttura, appunto, ibrida. Essi rappresentano il massimo della disfunzionalità in termini di performance politica. Collier conia per loro un termine particolarmente allusivo, democrazy, una crasi tra le parole democracy e crazy. L’analisi, come detto, è specificamente diretta ai paesi del bottom billion, ma questo non toglie che molte delle conclusioni trovate da Collier siano facilmente estendibili ai casi di regimi ibridi economicamente e socialmente più stabili, come la Russia.

Come nascono le “demopazzie”? La questione dello sviluppo economico

Partiamo da un dato crudo: secondo Collier (ma l’osservazione è discutibile), la democrazia tende a consolidarsi in uno stato quando il PIL pro capite supera i 2700 dollari annui. Qua più che mai, l’analisi deve essere limitata al bottom billion, se si vuole comprenderla: non avrebbe senso applicare parametri simili a Russia e Cina, per esempio. Lo sviluppo economico funziona come un reagente, e tende a creare una classe media che, al crescere del benessere, chiede maggiori tutele. Per far funzionare la nuova macchina divengono fondamentali un rule of law autentico e un sistema di tutele della persona. La nuova classe media pian piano diventa il fulcro economico del paese, e tiene in mano tutti i principali assets. Secondo lo stesso meccanismo che duecento anni fa portò alla Rivoluzione francese, chi detiene il potere economico mal sopporta di essere escluso dalle decisioni politiche. Se il regime è pronto e responsivo, questa spinta dal basso può essere sfruttata anziché subita, e il paese si avvia sulla strada della democrazia.

La trappola del sottosviluppo

Prendiamo il caso contrario: un paese povero, corrotto, che non cresce economicamente e, quindi, non ha una classe media. La comunità internazionale, con Stati Uniti e Unione Europea in testa, spinge però per l’adozione del sistema democratico, convinta che essa sia, a prescindere, la soluzione migliore. Il governante autocratico (di tipo militare, regale o religioso) decide di cogliere l’occasione. In cambio di un’apertura democratica, gli sono stati promessi ingenti aiuti economici!

La spinta alla democratizzazione però non viene dal basso, bensì dall’alto. La conseguenza è chiara: si attuano quelle piccole modifiche che accontentano gli sponsor (ad esempio, si istituiscono elezioni, tanto esistono i brogli). Anche in questo caso si ha una transizione di regime: dall’autoritarismo si passa a un regime ibrido. In teoria sembrerebbe meglio, c’è stato uno spostamento di segno positivo verso la democrazia. In pratica però, come visto, ciò significa solo aggiungere ulteriori disfunzionalità a un sistema già di per sé disfunzionale.

Una prima disfunzionalità dei regimi ibridi: i livelli di violenza

Collier si pone una domanda fondamentale a proposito delle performance politiche di un regime ibrido: sono esse più o meno violente di un autoritarismo puro? In questo caso, il concetto di violenza si riferisce alla violenza interna ad un paese, e non a quella internazionale. Il risultato è piuttosto netto: i regimi ibridi sono intrinsecamente più violenti degli autoritarismi. In un contesto politico in cui vigono elezioni, ma a tali elezioni non corrisponde un sistema di responsabilità che instradi lo scontro politico verso la risoluzione pacifica dei problemi (come avviene in democrazia), chi viene sconfitto ha pochissime remore ad utilizzare la violenza per (tentare di) ribaltare il risultato.

La parte che perde il gioco elettorale spesso e volentieri mobilita la propria base elettorale scontenta, che quasi sempre è di natura etnica, e la scaglia contro i vincitori, innescando meccanismi da guerra civile. Se ci si pensa, nel gennaio 2021 questo identico meccanismo ha rischiato di replicarsi addirittura negli Stati Uniti, quando Trump, sconfitto, ha mobilitato la propria base per l’assalto al Campidoglio. In quell’occasione la forza delle istituzioni statunitensi ha fermato in partenza ogni velleità di rivolta. Non è un caso che i fatti del Campidoglio siano stati avvertiti in modo così drammatico dal mondo occidentale. Analiticamente, sono stati un pericoloso sbandamento del leader democratico mondiale verso una dinamica da demopazzia.

Il dilemma del “demopazzo”

La differenza sostanziale è che, nel caso di un regime ibrido del bottom billion (che, si ricordi, è l’oggetto d’analisi di Collier), le istituzioni statali non sono praticamente mai così forti da uccidere in culla un tentativo simile. Un governante “demopazzo” si trova in un pericoloso limbo: non ha a disposizione la solidità istituzionale di un’autentica democrazia, ma nemmeno dispone degli strumenti repressivi di un autoritarismo. Regimi prettamente autoritari come la Cina, la Nord Corea o l’Arabia Saudita hanno un bagaglio di tecniche repressive migliori, non dovendosi preoccupare nemmeno in minima parte di dinamiche elettorali et similia; e sono caratterizzate, in genere, da bassi livelli di frammentazione identitaria.

E allora perchè i regimi ibridi proliferano?

Abbiamo visto come un governante demopazzo sia spinto a promuovere riforme pro-democrazia, che poi rimangono solamente di facciata, per far contenti i propri sponsor occidentali. Questa è la ragione principale per cui le demopazzie attuano la strategia che possiamo chiamare out-of-authoritarianism: certamente conviene attuare qualche riformetta non invasiva ed essere partner internazionale dell’Occidente, piuttosto che rifiutarsi ed essere un paria soggetto di sanzioni. Che queste dinamiche portino, in futuro, a disfunzionalità e maggiori livelli di violenza, è qualcosa che il governante sul momento non sa, e forse nemmeno gli interesserebbe.  Dal punto di vista opposto, la via per la democratizzazione completa non si compie per altrettanti motivi. Il principale rimane quello esposto in precedenza: quando c’è sottosviluppo, mancando la classe media, il processo è di natura top-down.

E perché al governante conviene adottare questa strategia out-of-democracy? Per motivi molto razionali. Un leader di un paese del bottom billion conosce un fatto davvero frustrante: governare bene non significa ottenere consenso. In una democrazia efficiente, stando ai dati, il leader ha il 45% di possibilità di rimanere in carica al secondo giro elettorale. In un paese sottosviluppato, le istituzioni sono tanto malandate che governare bene non può che coincidere con una rivoluzione strutturale del paese. Questo significa, tanto per cominciare, tasse tasse e ancora tasse. Un simile meccanismo scoraggia il governante che infine, perse per perse le elezioni, opta per i brogli: ed ecco la demopazzia.

Il “manuale per il perfetto demopazzo”

Questo nuovo sistema fornisce al leader un nuovo set di strumenti truffaldini con cui provare a mantenere il potere, pur dovendosi confrontare con le elezioni. Collier li elenca in quello che chiama, ironicamente, “Manuale per il demopazzo”.

  • Governare bene. Ma non è fattibile in un paese sottosviluppato, come si è visto.
  • Mentire. Ha un vantaggio: è gratis. Ma essendo gratis, lo possono fare tutti. È un giocattolo che si può rompere.
  • Trovare un capro espiatorio, in genere una minoranza. Un grande classico evergreen, ma che rischia di spezzare il fragile equilibrio di uno stato già diviso etnicamente. Si può fare, ma è un rischio.
  • Corruzione, ovvero un “intervento preventivo” sul risultato elettorale. Funziona bene, meglio ancora se associato a strumenti di intimidazione che si assicurino che il segreto elettorale non sia poi così segreto. Unico problema: costa molto. Conviene corrompere, più che le singole persone, un capo-popolo che se ne porti dietro molte. La mappatura della corruzione si deve fare in maniera oculata, in base a questioni tecniche come i collegi elettorali. Cambia molto se i collegi sono proporzionali oppure maggioritari secchi. In un collegio in cui le proiezioni ti danno al 20%, o si trova un ampio pacchetto di voti, oppure lo si deve tralasciare. Meglio vincere due collegi 51 a 49 e perderne un terzo 99 a 1, che viceversa.
Intimidazione, eliminazione delle alternative, brogli
  • Intimidazione. Picchiare qualcuno non garantisce il suo voto, ma è un ottimo modo per impedire a blocchi interi di persone di andare a votare, e dunque è uno strumento da utilizzarsi in collegi ove i sondaggi sono particolarmente nefasti. Due problemi: come si suol dire, i pugni nelle mani ce li hanno tutti, e come le si danno si rischia anche di prenderle. In secondo luogo, inviare direttamente l’esercito a intimidire significa bruciarsi ogni forma di “plausible deniability” e rischiare una guerra civile.
  • Eliminare le alternative. In due modi: eliminandoli “fisicamente”, con la galera o con la morte, oppure tramite intrighi legali. Il primo è rischioso e rischia di innescare dinamiche violente. Il secondo è più fattibile, ma le alternative non si possono escludere in toto (o salta ogni pretesa di legittimità) e c’è il rischio del voto di protesta, in cui tutti gli avversari votano il candidato debole rimasto come unica alternativa.
  • Brogli, ovvero un “intervento consequenziale” al risultato elettorale. È decisamente lo strumento migliore. Un sistema già di per sé corrotto difetta di tutte i “check and balances” propri di uno stato efficiente. Le commissioni di controllo spesso altro non sono che un’estensione dell’esecutivo stesso. Gli osservatori internazionali possono esprimere dubbi, ma la “plausible deniability” rimane intatta. Unico problema: meglio evitare percentuali bulgare, perché fanno drizzare un po’ troppo le antenne e si rischiano dinamiche conflittuali post-elezioni.
La convenienza dei regimi ibridi

Gli elementi di questo “manuale d’istruzioni” non sono ovviamente autoescludenti, ma devono essere sapientemente integrati per un risultato ottimale. Di fatto, i dati confermano la loro validità. Se in una democrazia pura chi è al governo ha il 45% di chance in media di rielezione, in un regime ibrido la percentuale vola fino al 74%. Ecco dove sta la convenienza. Il sistema è disfunzionale nelle conseguenze, ma purtroppo non lo è nelle premesse. E così i regimi ibridi proliferano, portandosi dietro tutto quel carico di problemi che li rendono entità fallaci, instabili e pericolose per l’equilibrio internazionale.

Matteo Suardi
Matteo Suardi
Matteo Suardi, oltrepadano di nascita e di spirito, classe 1997. Studio Scienze internazionali all'Università di Torino, profilo Middle East and North Africa. Fiero appassionato di Medio Oriente, multilateralismo e studio delle religioni, scrivo per Sistema Critico nella sezione Politica. Die hard fan dell'ONU, unica cosa al mondo che mi emoziona più di Roger Federer.

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