lunedì, 09 Dicembre 2024

La sorella del sogno: intervista a Gianni D’Elia

Gianni D’Elia è un poeta, scrittore ed intellettuale pesarese. E’ autore di numerosi libri di poesia, saggi ed anche traduzioni. Ha pubblicato da poco una nuova raccolta di poesie, “La sorella del sogno” (Luca Sossella Editore), sulla quale abbiamo avuto la fortuna di intervistarlo.

Gianni d’Elia vorrei partire dal titolo del suo ultimo libro, “La sorella del sogno”, può spiegarcelo?

«Il titolo viene da Baudelaire, da un verso de “Il rinnegamento di San Pietro”, poesia 118 dei Fiori del male che cito anche all’inizio del libro, che recita “ah si quanto a me/ me ne andrò volentieri da un mondo/ dove l’azione non è/ la sorella del sogno”, quindi la sorella del sogno è l’azione.

Assieme all’utopia ci vuole l’azione; e questa è una critica che lui fa all’ufficialità del cristianesimo; alla fine dà infatti ragione a San Pietro, che ha rinnegato Gesù: non basta il Vangelo, ci vuole la spada, tanto è vero che nel verso precedente dice “che io possa usare la spada e di spada morire”.

C’è una poesia che risponde a questa questione ideologica del libro, che il lettore trova poco dopo, che si intitola “Con le armi della poesia” in cui io metto vicino Leopardi e Baudelaire perché ci sono questi versi di “All’Italia” di Leopardi: “L’armi qua l’armi: io solo/ combatterò, procomberò sol’io/ dammi o ciel che sia foco/ agli italici petti il sangue mio.”.

La cosa incredibile è che Leopardi dice “l’armi qua l’armi“ e Baudelaire dice “la glaive la glaive” (la spada la spada), quindi c’è un’identità tra questi due poeti in questo verso, cioè nell’ansia del combattimento, nell’ansia dell’azione politica e addirittura militare.

Io nei versi alla fine di questo mia poesia dico: “Ma il vero arsenale di Baudelaire e di Leopardi/ non fu il critico canto e il più acuto io?…/- Gettare il proprio corpo nella lotta- / fu fino a Pasolini l’arte che scotta…”.

In questa quartina ragiono sul fatto che il combattimento poetico è legato alla parola più che all’azione vera e propria. La vera azione di Leopardi e di Baudelaire è stata il canto critico e un acuto io, un io affilato e combattivo.

Una caratteristica particolare del libro è il fatto che ogni sezione inizia con una citazione di quelli che forse si possono definire i suoi maestri. Sono quasi dei comandamenti poetici, per esempio quello di Pasolini è fondamentale “ non parlar la parola ma la cosa” che poi significa andare a fondo della questione.

È una frase che ho preso da quella tragedia in versi di Pasolini che è intitolata “Bestia da stile”: il protagonista è un giovane poeta, Jan, che è ricalcato su Palach e su tutte le vicende del ’68 dei paesi dell’Est: c’è insomma un’aria di grande libertà e di grande provocazione contro il potere.

Nel coro finale che viene cantato viene detto proprio “non parlar la parola ma la cosa”: lui stesso in realtà cita la poesia dell’XI e XII secolo di alcuni poeti, che era quello che si proponevano; lo prende da quel messaggio trobadorico originario.

Nel finale infatti il coro dice “ubi amor ibi oculus est”, riprendendo Riccardo di San Vittore che aveva una scuola a Parigi nel XII secolo ed è da lui che Pasolini prende la frase che cito nel mio libro.

Sottolineerei l’aspetto intertestuale, che è molto importante per la scuola e in generale per l’educazione alla lettura critica.

Qui l’intertestualità è forte. Si risale dal titolo del libro, La sorella del sogno, a un concetto forte di Baudelaire. Forte perché questa poesia era quella che la madre, sul letto di morte del figlio, voleva far togliere dal canzoniere. Era ritenuta la poesia più eretica e per lei, che era una bigotta molto cattolica, era quasi una bestemmia: il concetto di fondo è quello del rapporto tra l’agire ed il dire.

L’eresia di Baudelaire, in questo caso, è quella di spingere sul pedale dell’agire: non soltanto del verbo, della parola, del Vangelo, ma dell’azione, della spada addirittura.

Quindi l’intertesto qui risale a Baudelaire, ma poi si ritorna a Leopardi che con “l’armi qua l’armi” richiama a “la glaive la glaive” de “Il rinnegamento di San Pietro”; una sorta di reduplicatio: usano quasi lo stesso meccanismo; un bravo studente direbbe che nei versi di Leopardi c’è una replicatio, non patetizzante, come nel caso dell’opera lirica, non per piangere ma per spronare, ma per fare arrabbiare ancora di più.

L’intertesto io lo sottolineerei con un riferimento alla tesi di laurea di Pasolini sul Pascoli, dove c’è una frase che ti vorrei leggere. Nell’introduzione alla tesi dice “non posso vagliare la poesia del Pascoli se non riavvicinandola per un momento all’esperienze della poesia francese, la quale, al termine di un ciclo di ricerche sull’arte, giunge con Baudelaire a ‘mettere le mani su qualcosa di scottante'”, ossia la coscienza della poesia, cosa che in Pascoli non avviene affatto.

Quando io, nella quarta di copertina, dico riprendendo il discorso di Saba che la poesia onesta significa fare poesia concentrandosi sulla selezione e sul rifacimento dei materiali della tradizione dei classici più che sulla nuovissima creazione intendo questo.

Questa cosa io l’ho chiamata l’avanguardia della tradizione.».

Mi sembra di capire quindi che lo scrittore non possa mai scrivere opere completamente originali, è così ?

«Il nuovo arriva attraverso la selezione e il rifacimento che è il lavoro che ho fatto io come poeta.

Fiori del mare prende addirittura un metaplasmo grazie alla lingua italiana che permette l’assonanza con la raccolta di Baudelaire ed è tutto ricalcato sulla ricostruzione di una specie di paesaggio adriatico-parigino: una sorta di rifacimento sulla riva adriatica di concetti fondamentali dell’alienazione, della resistenza e dello shock che erano stati di Baudelaire

“Il suon di lei” riprende il canone leopardiano, “La sorella del sogno” ritorna a Baudelaire.

Ho spiegato queste scelte mettendo quella citazione di Saba per far capire che non è una semplice trovata. Si tratta di discorso molto serio: riprendere il portato della tradizione, che è quella più di avanguardia anche politica e forse rivoluzionaria, di Baudelaire, Rimbaud e Pasolini e portare avanti questa linea rivoluzionaria della poesia, che oggi non è molto praticata.

Oggi va di moda una linea “buddista”, conciliatoria, new age, ma manca la coscienza della poesia; ci vuole la tigna, come si direbbe da noi a Pesaro.

Io nei libri la tigna l’ho messa: l’ho messa in questo libro forse un po’ ampio, ma che ho scritto soprattutto per i giovani perché chi non ha letto il mio primo libro, “Non per chi va”, pubblicato nell’80, ritroverà gli stessi temi.

“Non per chi va” è un libro che parla della crisi della generazione che voleva fare la rivoluzione e si trova il delitto Moro fra i piedi, oggi voi vi trovate le guerre (come dico nella prima poesia).

Oggi come allora il poeta, ma anche il lettore, trova in questa situazione storica tragica, che allora era molto nazionale ma che adesso è globale, il sogno ecologico, di cui parlavo né “Il suon di lei”, che è stato interrotto dalla guerra.

Ho scritto questo libro per rispondere a quel lei, cioè quella che per Leopardi era l’epoca, il suono dell’epoca, cioè la sorella del sogno, l’utopia. Non fa più le trombe perché ha bisogno di un azione che non sia la guerra.

Ho voluto cantare la resistenza rivoluzionaria attraverso la coscienza della poesia; cioè non basta la poesia, bisogna riprendere la lezione di Baudelaire e mettere la mano su qualcosa di scottante.

La poesia ha una responsabilità storica, non è solo la poesia che conta ma la coscienza della poesia che impone al poeta di avere un confronto con il mondo, con il potere, con l’ideologia dominante e non solo con l’intimità, la cifra della poesia che oggi va per la maggiore.».

Lei oltre a scrivere poesie si è occupato anche di critica letteraria ed ha anche pubblicato diverse traduzioni. Questa attività è solo funzionale alla scrittura o ha anche una sua autonomia?

«Io direi che sono connaturate con l’ispirazione, che per noi “è il lavoro quotidiano”.

Il lavoro quotidiano di un poeta prevede molto la lettura, la lettura dei classici, la lettura dei poeti che ami. Io poi ho cominciato a tradurre per amore: le prime cose che ho tradotto di Baudelaire erano per occasioni esistenziali. Per esempio, mi piaceva una ragazza, una modella francese, che veniva a Pesaro, erano gli anni ’70 e si chiamava Rachelle.

Io son tornato a casa, ho preso I fiori del male e l’ho aperto a caso. Mi è capitata la numero 27, “Avec ses vêtements ondoyants et nacrés” (Con le sue vesti fluttuanti ed iridate), e mi sembrava di leggere la serata che avevo vissuto: Rachelle che camminava in quel modo. Quest’idea della donna femmina e non madre, come dice l’autore “la donna sterile” e veniva fuori tutto questo bellissimo discorso “stranezza e simbolo”; traducendo letteralmente la poesia reciterebbe “in questa natura strana e simbolica” che io ho rovesciato traducendo “natura e simbolo”.

Le mie traduzioni sono belle perché sono empatiche e sono per me il frutto di occasioni esistenziali che mi hanno portato a tradurre; poi naturalmente ho tradotto anche altre cose che mi interessavano. Però la traduzione ha qualcosa di magico che ha a che fare con la vita perché vivi delle esperienze e leggi dei poeti e dei testi che ti richiamano cose che hai vissuto e tutto questo è formazione.

Non si legge mai niente cosi bene come quando si traduce perché devi partire dalla lingua di partenza ed arrivare alla tua lingua. Tu stai facendo poesia in cagnara, tu in quel momento, nella sfida che hai col verso nel compensare; la traduzione è tutta una compensazione perché si perde una cosa e se ne prende un altra.

Allora io invece di mettere natura strana e simbolica ho messa boh gli addendi sono gli stessi ma sono rovesciati, è alchimia.

La poesia è questa strana alchimia di partenza o di arrivo, in questo caso di arrivo perché traduci.

È chiaro che se tu hai un impulso creativo leggi e sei portato anche a immedesimarti a tradurre per attrazione

Sono le cose che ti piacciono che traduci, alle volte anche poesie più difficili e sono piccole sfide ma devo dirti che Giulio Einaudi, quando venne qui a Pesaro a presentare un suo libro di testimonianze, e Paolo Teobaldi e io discutemmo. Io gli diedi il mio taccuino da leggere e lui già a cena mi disse che traducevo benissimo, io gli dissi “come fai a saperlo, te lo ho dato adesso?!”. Aveva colto, in effetti, alcuni particolari delle traduzioni: quel libretto mi ha portato un sacco di fortuna, lì c’erano dieci poeti tradotti e la maggior parte delle poesie erano de’ I fiori del male.».

Lei dedica molta attenzione nelle sue rime alla metrica, che sembra essere un aspetto un po’ dimenticato negli ultimi tempi. Perché la metrica e cosi importante per lei?

«Il potere della metrica è l’efficacia della trasmissione del messaggio, la concentrazione, la sintesi, la battitura anche ritmica o interna al verso o in rapporto al verso successivo, cioè la rima.

Il mio modello è quello che chiamo l’avanguardia della tradizione, un concetto che uso anche in un mio saggio su Pasolini L’eresia di Pasolini. L’avanguardia della tradizione dopo Leopardi. Era uno studio del rapporto tra Leopardi e Pasolini perché ho ritrovato tante cose che Pasolini ha preso da Leopardi e la base di tutti è Dante.

Io scrivo molto in endecasillabi e in dodecasillabi alessandrini, uso molto anche la rima obliqua. Una trama metrica innervata sulla tradizione della quartina che nasconde la terzina, perché se vai a leggere Dante spesso trovi la quarta rima che riprende il primo verso.

La mia teoria è che dalla sestina dei provenzali Dante, dividendola in due, abbia preso la terzina, mentre per quanto riguarda la quartina in realtà questo 4 più 2 torna nella rima quindi la sestina nasconde un rapporto di suono da quartina.

Questa è una cosa che può arrivare a capire solo un poeta però c’è questa cosa di incapsulare tutte queste forme metriche.

Tutte le mie poesie finiscono con il distico io le finisco cosi per ribadire che anche poesia come i sonetti faccio non 4433 ma 4442 perché secondo me e l’origine di tutta la poesia di tutti i tempi perché la poesia greca è in distici, il distico moltiplicato fa la quartina.».

Chi non frequenta la poesia fa fatica a comprendere questi discorsi, forse perché il verso va frequentato quotidianamente..

«Guarda è come la musica, i ragazzi oggi sanno il rap e spesso scrivono anche le barre, che sarebbero poi i versi, e hanno familiarità con il ritmo e usano moltissimo la rima.

Io vorrei arrivare a un pubblico un po’ più vasto anche grazie ai versi tradizionali, anche se innervati da qualche elemento di avanguardia, per esempio da me non c’è la punteggiatura.

Ci sono solo puntini punti esclamativi e interrogativi.

Non è facile perché bisogna trovare una musica del verso, io questa cosa l’ho presa da Apollinaire, che è stato il primo a fare poesie senza punteggiatura.

Un bravo lettore dovrebbe capire che l’idea dell’avanguardia della tradizione è anche questo: usare la quartina tradizionale ma non la punteggiatura.

I puntini li uso perché sono la continuità cinematografica o teatrale del dire. Introduco teatro e cinema nella mia scrittura, la vita come un teatro, la vita come un cinema.

La realtà è la lingua orale di se stessa, il cinema e la parola la scrivono.

La parola la scrive evocando invece che rappresentando o filmando ma sfida il cinema, alla fine del libro ci sono poesie che ne parlano (“motore, ciak, azione”). La realtà è cosi bella che non ci sarebbe neanche bisogno di andare al cinema…

Questa sfida torna anche nel romanzo incompiuto che cito alla fine. Si tratta di un romanzone di poesia (è in prosa ma parla della poesia, del poeta e della percezioni) che sto scrivendo dal ’94 e che prima o poi vorrei pubblicare in tanti volumi, avendo come modello Proust. Dopo tanti libri di poesia, questo è l’ultimo.

Per un po’ sto buono con i versi perché mi vorrei concentrare su un romanzo in cui ci sono compresi anche dei versi citati dal curatore.

Le poesie finiranno al limite in un romanzo in cui c’è un protagonista, Ivan, un controtipo biografico; il curatore è Michel, che deve mettere a posto tutte le carte (che negli anni sono aumentate) e che imbastisce questa sorta di narratologia in cui i tempi sono del creare, del concepire, anche del rispondere alla cronaca italiana, di tutto il periodo dal ’94.

È una specie di cinema-teatro-fiume, i pochi amici a cui l’ho letto mi incalzano ad andare avanti in questo progetto che è un po’ delirante.».

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