giovedì, 28 Marzo 2024

Distopia nella realtà: Primo Levi e il suo viaggio all’Inferno

Ho dieci anni, sono in quinta elementare. È venerdì, un giorno qualsiasi. La maestra è un po’ turbata oggi, la sento diversa, avrà corretto i nostri compiti di grammatica. «Buongiorno bambini, che giorno è oggi?», «Venerdì 27 gennaio, maestra», rispondiamo in coro. «La giornata della memoria», risponde lei. «Di quale memoria, maestra?», risponde uno di noi. «La memoria della vita che trionfa sulla morte» risponde, mentre consegna a tutti noi un foglio. È una poesia. Se questo è un uomo, c’è scritto.

Voi che siete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / Considerate se questo è un uomo / che lavora nel fango / che non conosce pace / che lotta per mezzo pane / che muore per un sì e per un no.

«“Che muore per un sì e per un no?” Cosa vuol dire? Come può mai essere possibile?», dopo tanti anni siamo qui, seduti nelle nostre tiepide case, a domandarci le stesse cose, mentre cerchiamo di dare forma ad un dolore disumano.

Primo Levi, un salvato tra mille volti sommersi

È difficile rispondere ai mille perché. È difficile disegnare la geografia dell’oblio di un uomo il cui grido è incessante ed eterno. Primo Levi vive nelle sue parole, nella sua testimonianza, nella sua Odissea. Nato nel 1919 a Torino da genitori di origine ebraica, è considerato il testimone esemplare di uno degli avvenimenti più strazianti della storia europea: la deportazione nei campi di concentramento e la schiavitù vissuta sulla pelle di milioni di esseri umani, operate dalla Germania nazista. La mattina del 13 dicembre 1943 viene catturato dai fascisti. Dopo un breve periodo di detenzione, il prigioniero dichiara di essere di razza ebraica e per questo motivo viene inviato al campo di raccolta di Fòssoli, nei pressi di Carpi. Il 22 febbraio 1944 viene trasferito in un pullman alla stazione di Carpi e il 26 febbraio dello stesso anno arriva, nella notte, ad Auschwitz. Uomini e donne sono subito divisi; in ogni gruppo viene fatta una scelta sommaria, alcuni a destra, altri a sinistra. Più tardi, Levi saprà che quella scelta “sommaria” ha decretato la sorte della sua vita, e di quella dei suoi compagni. Il chimico riuscì a sopravvivere fino alla liberazione del campo, avvenuta il 27 gennaio 1945.

Da chimico a scrittore: la necessità di testimoniare

Non si trattava solo di testimoniare, Primo Levi sentiva il bisogno primario di trasmettere l’esperienza vissuta e condividere con essa le passioni, le emozioni e i traumi di quella vita violenta che lo aveva deturpato della sua dignità di uomo. Occorreva diventare scrittore per imprimere il buio che l’uomo aveva costruito e che aveva patito, per provare e ri-provare l’offesa subita e la tentata trasformazione di cui l’intera umanità era stata partecipe. Una trasformazione che aveva comportato lo sgretolamento dell’amore, dell’uomo, di Dio, della vita. Levi ricostruì la sua storia per ricostruire sé stesso, il suo io prima e dopo Auschwitz. La memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace. È questa una verità logora […] i ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei. (I sommersi e i salvanti, p. 13). Nel 1947 pubblica Se questo è un uomo, intramontabile documento delle violenze naziste. Nel 1963 esce il suo secondo libro, La tregua, cronaca della liberazione e del suo ritorno a casa. Altre opere sono a lui attribuite: Storie naturali, Vizio di forma, Il sistema periodico, La chiave a stella, La ricerca delle radici, Antologia personale e Se non ora, quando? Scriverà il suo ultimo saggio nel 1986, dal titolo I sommersi e i salvati. La mattina del 11 aprile del 1987 il dolore e la sofferenza dei ricordi, assieme ai suoi incubi laceranti, terminarono per sempre.

Viaggio all’inferno

Se la porta dell’Inferno dantesco recita la frase “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” quella dell’inferno di Primo Levi riporta “Il lavoro rende liberi”. Una frase illusoria e che, rispetto a quella dantesca, risulta essere più diabolica e infernale. Se Dante è stato perentorio, assicurando l’impossibilità di una salvezza e chiudendo ogni spazio alla speranza; i cancelli di Auschwitz si dimostrano invece essere tremendamente ingannevoli e sadici. Come sappiamo, Dante è riuscito ad uscire a vedere le stelle. Primo Levi, e chi come lui è sopravvissuto al viaggio infernale nelle gelide terre polacche, quelle stelle non le ha più riviste, almeno metaforicamente parlando. Il rapporto tra i due risulta evidente all’interno di “Se questo è un uomo” dove l’autore ripercorre la sua discesa all’Inferno, il suo viaggio tra le selve oscure della vita e tra gli ultimi, esseri umani privati di tutta l’umanità. L’inferno sceso in terra si usa dire, e bene Auschwitz era davvero l’inferno sceso in terra, con diavoli e dannati, un festival metaforico del dolore e della disperazione. All’interno di quella spirale oscura Dante ha rappresentato uno degli ultimi appigli alla vita, alla normalità e all’umanità soprattutto.

Il canto di Primo Levi

Se da un lato la struttura del viaggio sembra simile, il parallelismo tra il poeta fiorentino e uno dei salvati viene avvallato dallo stesso Levi che dedica un capitolo del proprio romanzo, della propria testimonianza, al creatore della Divina Commedia. Il canto di Ulisse lo intitola. Nel raccontare questo passaggio dantesco al compagno di avventura, Pikolo, Levi si perde nella bellezza e nell’incertezza di un ricordo sempre più vago. L’inferno dantesco, in confronto a quello Polacco sembra essere un eco di gioia e di speranza. Lo stesso Levi quando prova a spiegarlo al compagno afferma:

Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.

La speranza del viaggio dantesco si scontra con la morte certa del viaggio descritto da Primo Levi. Due viaggiatori, spersi in mondi disumani, tra metafore e crude realtà. Entrambi raccontano un mondo di condannati. Se Dante giudica in base a colpe più o meno reali, l’unica colpa dei dannati di Auschwitz risulta essere un peccato primordiale, mai commesso. I viaggiatori delle viscere del genere umano compiono un percorso simile ma con una fine tristemente diverse. Primo Levi, a differenza di Dante, non sarà mai libero dai demoni che quell’inferno l’hanno creato e lo hanno abitato. La memoria risulta essere l’unico bagliore in una vita annegata nel nero della disperazione e della sopravvivenza. Primo Levi ci lascia un monito ben diverso da quello del predecessore fiorentino. Per la prima volta l’essere umano è sceso all’inferno, in un viaggio eterno di sofferenza e tormento, condannato per un reato mai compiuto. Badate dunque ciò che è stato, e ringraziate se oggi quelle stelle potete vederle senza dover pensare ai demoni del passato.

Asia Vitullo e Andrea Belegni

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