venerdì, 26 Aprile 2024

In prima linea

Marie Colvin e l’importanza del journalism of attachment

Il 5 gennaio Bompiani ha pubblicato in italiano la biografia di Marie Colvin, “In prima linea”. Inserita nella collana “Munizioni”, a cura di Roberto Saviano, la biografia raccoglie moltissimi tra articoli e reportage della pluripremiata giornalista.

Nata a Oyster Bay, nello Stato di New York, Marie Colvin si avvicina già dagli anni del college al mondo del giornalismo. Ottiene il suo primo incarico nella Grande Mela come reporter per la UPI (United Press International).

Dopo essere stata trasferita a Washington e in seguito a Parigi, come chef de bureau, Colvin inizia a lavorare per il Sunday Times. Inizialmente ricopre la carica di corrispondente estero per il Medio Oriente e successivamente quella di corrispondente per gli Affari Esteri. Nel 1986 è la prima giornalista a intervistare il colonnello Gheddafi, dopo l’inizio dei bombardamenti degli Stati Uniti in Libia.

Da quel momento in poi si dedica interamente al giornalismo di guerra: dalla prima Guerra del Golfo alla guerra in Kosovo; dalla crisi di Timor Est, dove riesce a salvare la vita di 1500 persone, alla guerra in Cecenia. Colvin si trova sempre in prima linea in tutti i conflitti più determinanti di fine secolo scorso.

Il PTSD

Nel 2000 perde la vista dall’occhio sinistro durante una missione in Sri Lanka, incidente che la costringerà da allora ad indossare una benda sul viso e a fare i conti per il resto della vita con forme di post traumatic stress disorder.

Tuttavia, neanche questa tragedia ferma una giornalista che aveva votato la sua vita a denunciare gli aspetti più feroci dei conflitti. Anche se questo voleva dire non solo rinunciare ad avere una normale vita privata, ma a rischiare quella vita stessa in nome del dovere di cronaca e di testimonianza.  

Torna sul campo, con non poche difficoltà. Nonostante i dubbi manifestati dai suoi colleghi, a 11 anni dall’incidente, Colvin decide di lanciarsi in un’altra pericolosa missione: coprire le Primavere Arabe. Nel gennaio 2011 la giornalista si reca a Tunisi, poi al Cairo, poi in Libia, seguendo passo dopo passo l’onda delle rivoluzioni che si spargeva a macchia d’olio.

Quando le rivolte scoppiano anche in Siria, Colvin non può tirarsi indietro. Si comprende sin da subito che la situazione siriana sarebbe stata ben più complicata visto che il dittatore Bashar al-Assad non aveva alcuna intenzione di capitolare come era successo con Ben Ali, Mubarak e Gheddafi.

L’ultimo viaggio: la Siria

Il regime siriano tarda a concederle il visto per entrare legalmente nel paese, dopo aver inoltre dichiarato che ogni giornalista trovato su suolo siriano sprovvisto di permesso sarebbe stato considerato al pari di un terrorista. Colvin non può più aspettare, le notizie che trapelavano da Homs, città da cui erano iniziati i disordini, sono allarmanti. I civili muoiono a migliaia, vittime dei bombardamenti sistematici o ridotti alla fame. Insieme a Paul Conroy, fotoreporter con cui aveva lavorato già in diverse occasioni, la reporter decide quindi di entrare illegalmente nel paese.

Quello in Siria sarebbe stato il suo ultimo viaggio: Marie Colvin muore il 22 febbraio 2012 sotto un bombardamento. Il regime aveva localizzato diversi giornalisti internazionali nascosti nel quartiere di Baba Amr e aveva messo l’edificio, in cui erano nascosti, sotto tiro. L’autopsia effettuata a Damasco rivelò che la giornalista era morta a causa di un’esplosione di un ordigno contenente dei chiodi. Il governo siriano sostenne che la bomba fosse responsabilità dei ribelli.

Il journalism of attachment

Per capire di che scuola fosse la giornalista, dobbiamo parlare del cosiddetto journalism of attachment, che comincia a farsi strada nell’ultimo decennio del secolo scorso.  Dalle guerre balcaniche degli anni ’90 infatti, le persone avevano la percezione che il giornalismo di guerra si stesse “femminilizzando”. Il più emotivo journalism of attachment sostituisce così il più freddo e distaccato approccio del bystender journalism (per cui il reporter è un mero spettatore degli avvenimenti).

Fondamentalmente si insisteva sul cambiamento registrato nei toni giornalistici, al di là del genere dell’autore. Se prima si raccontavano gli eventi bellici, senza far trapelare un giudizio in merito (a meno che non si trattasse di opera propagandistica), adesso i giornalisti andavano oltre. La brutalità dei conflitti spingeva non solo i giornalisti a palesare le loro opinioni, ma anche a portare avanti delle vere e proprie denunce delle efferatezze che venivano commesse. In più l’attenzione alle vittime, che prima era considerata in maniera stereotipata prettamente femminile, adesso diventava la norma.

Marie Colvin è stata un ottimo esempio di questa nuova corrente del journalism of attachment. Si dimostrò sempre vicina e interessata alla parte dei civili, vittime degli scontri armati. In Kosovo, in Cecenia, a Timor Est, aveva rischiato la sua vita per arrivare ai luoghi in cui i rifugiati si nascondevano. Voleva sentire le loro voci, per offrire loro un modo per essere ascoltati.

Giornalismo di guerra come denuncia

L’intenzione di non abbandonare i più colpiti dai conflitti la condusse alla morte, ma era un rischio che Colvin era disposta a correre fin dai primi anni di lavoro sul campo per denunciare cosa accade nei teatri di guerra. Per questo aveva ritardato da partenza da Baba Amr, per riportare cosa succedeva in uno degli ospedali da campo dove ogni giorno morivano centinaia di bambini; per questo aveva perso la vista da un occhio e aveva continuato a fare il suo lavoro sempre e comunque. Marie Colvin sposa insomma a pieno il nuovo approccio del journalism of attachment.

Il giornalismo di guerra è da sempre un potentissimo strumento nelle mani dei governi. Manipolando l’informazione questi ultimi possono utilizzarlo per costruire consenso. Allo stesso tempo, esso può anche rappresentare l’unica possibilità per denunciare cosa realmente accade nei teatri di guerra. Come ha fatto giorno dopo giorno Marie Colvin e come continuano a fare altri giornalisti. 

Sara Valentina Natale
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Sara Valentina Natale. Laureata in Studi Internazionali, ho scelto di proseguire i miei studi con un master in Corporate Communication, Lobbying & Public Affairs a Roma . Adoro scrivere, fare polemica e bere Gin. Aspirante femminista, europeista incallita, sportiva occasionale.

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