venerdì, 19 Aprile 2024

Americana di Don DeLillo: come gli spettri della televisione cambiano la narrativa (e il mondo)

Copertina italiana dell’edizione Einaudi del romanzo, con foto di Stephanie Cardon.

In Americana, primo romanzo di Don DeLillo, uscito nel 1971, lo scrittore rievoca, con la grazia dello sciamano, i miti dell’America contemporanea che continuano, nonostante il passare del tempo, a incubare aspettative nei sogni di milioni di persone. La storia è semplice: Dave Bell, giovane protagonista del romanzo, colto e raffinato, dopo aver lavorato per anni in un network televisivo, decide di partire in un viaggio verso Ovest, come in un road movie, per vedere le grandi bellezze naturali del continente. Il viaggio è però la pretesa per la conoscenza di sé stessi e per girare un film (un documentario sui Navajo):

’’Sentivo l’impulso irrefrenabile di abbandonare quel luogo, di trovarmi a sfrecciare verso ovest su un lungo rettilineo di autostrada. […] Di affrontare montagne e deserti, distruggere la mia apparenza fisica, prisma rifrattore di tutte le mie immagini, per divenire finalmente un uomo in grado di vivere unicamente delle proprie forze del proprio odore.”

DeLillo scrive un romanzo di viaggio onirico, fluviale, che non prende dignità dal conflitto Uomo/Paesaggio, come nella tradizione del romanzo americano classico, (basti pensare a Huckleberry Finn o Moby Dick ), ma è una narrativa per indagare le relazioni fra Dave e il suo immaginario. La frontiera, quella mitica dei cowboys, dei nativi e dei confini sterminati delle Grandi Pianure, viene sostituita: lo spazio da esplorare è l’inconscio denso di immagini di Dave.

‘’Nell’oltrepassarli lungo le strade  su cui viaggiavano diretti verso i propri confini interiori, veniva la tentazione di parafrasare un noto incipit. Erano i tempi peggiori, erano i tempi peggiori.’’

Il noto incipit è quello di Tales of two cities di Charles Dickens. La narrazione, in prima persona, è costellata da citazioni al canone letterario anglo-americano, che ad una lettura superficiale possono sembrare un semplice pastiche postmoderno. Un romanzo del genere sarebbe caduto nel dimenticatoio. La letteratura, negli anni ’70, non è più motore dell’immaginario. C’è la musica: i Beatles, i Rolling Stones, Janis Joplin, i Clash e i Sex Pistols. C’è il progresso scientifico: l’allunaggio è del 1969, permettendo agli Stati Uniti di vincere la corsa allo spazio contro l’URSS. Sono gli anni della psichedelia, dell’LSD, del cinema della New Hollywood di Hopper, Scorsese, Lucas e Coppola. E poi, la televisione. La nascita del capitalismo odierno è da ricercare nella pubblicità. Il potere illusorio delle immagini e dei prodotti televisivi ossessiona Dave:

‘’A noi, o almeno ad alcuni fra noi, rimaneva qualcos’altro: il sogno di una vita onesta, innocente, in apparenza semplice quanto bastava, era iniziata per me non appena imparato a leggere e proseguita attraverso l’era dei primi viaggi spaziali, come la fanfara di benvenuto all’aereo presidenziale […] Quel sogno comprendeva tutte le cose che pare la gente desideri tanto, materiali e oggetti e le ombre che proiettano, nonostante ciò presentava le sue complessità , le sue sfumature illusorie e ingannatrici, le sue implicazioni di morte tragicomica.’’

Non è solo il personaggio di Dave ad essere ossessionato da queste immagini, ma lo è anche l’America stessa. Questi spettri assumono la forma di racconti, narrati dai personaggi, come visioni e fantasmi, che Dave incontra lungo il suo viaggio. Ambientato negli  Stati Uniti all’inizio degli anni ’70, questi fantasmi sono la guerra in Vietnam, la minaccia atomica della Guerra Fredda, la speranza nello spiritualismo new-age, il movimento hippie, la paura e la fascinazione per gli UFO. 

Don DeLillo

DeLillo coglie le problematiche dell’America degli anni ’70. Ce le offre su un piatto sporco, rotto, ma con una punta di bianco. Quel punto è il suo personaggio principale, Dave Bell. Arrogante, ricco, sa che può fare delle persone ciò che vuole. Comprarle, abbatterle, venderle. Allo stesso tempo ne vediamo le fragilità. La sua vita da universitario sognatore, il lavoro che lo assorbe, il conflitto con il padre, lo spettro della madre. DeLillo usa spesso la tecnica del flusso di coscienza. La fa propria, pensando alla televisione. Coglie ciò che il sociologo gallese Raymond Williams, studioso di cultural studies, dirà 20 anni dopo:

Credo di aver collocato alcuni incidenti nel film sbagliato e di aver inserito personaggi della pubblicità nel film, in ciò che finì per apparirmi malgrado le bizzarre incongruenze, come un unico flusso di immagini e di sensazioni.

Raymond Williams, Raymond Williams on Television, Selected Writings, a cura di A. O’ Connor, Toronto, 1998.

In ogni caso alcuni generi di film sono abbastanza simili tra loro, e assomigliano alla pubblicità che consapevolmente li imita; al punto che una sequenza di questo tipo diventa un’esperienza molto difficile da interpretare.

Ibidem.

La confusione fra la pubblicità e il film crea il prodotto mediale. Dave è ossessionato dalle immagini dove realtà e finzione si confondono. Vede la realtà come se stesse guardando la televisione. Così il flusso degli spot e dei gingle diventa il flusso di coscienza che leggiamo. La tecnica, raffinata nel modernismo di primo Novecento, ottiene nuova linfa vitale. Dal documentario sui Navajo, rimasto come pretesto, ci si sposta verso qualcos’altro. Il desiderio, quasi di un titanismo romantico, che muove davvero Dave è quello di creare un film che racconti l’America dei sobborghi, della provincia, la vera America:

’’L’illusione del movimento era a malapena rilevante. Forse non era un film che stavo creando ma piuttosto un rotolo sacro, un frammento delicato di papiro che teme di essere scoperto. Senz’altro i veterani dell’industria cinematografica sarebbero stati pronti a giurare che un progetto simile precedeva l’invenzione del cinescopio di Edison. La mia risposta a quell’obiezione era semplicissima: ci vogliono secoli per inventare ciò che è primitivo.’’

In Americana leggiamo di un uomo che cerca con tutte le sue forze intellettuali di scampare al proprio immaginario attraverso l’arte: nella realtà ciò non accade, il film verrà montato ma non verrà mai concluso. La visione personale di Dave è torrenziale. Impossibile. Il cinema statunitense ha sempre rifuggito l’autoreferenzialità, e Dave vede nel mondo solo una pubblicità. Vede oggetti, vede merce, tenta di scrutare nell’anima, ma vede spot. Il mondo contemporaneo riflette, si unisce  e si confonde con la sua rappresentazione data dai mass media. Quanto si può parlare di realtà in un mondo in cui non è più percepita come tale se non mediata a priori da uno schermo?  

”La commedia vera eravamo noi, e noi avevamo bisogno di ombre su cui disegnare a gesso la nostra luce, di velocità per vincere la sequenza, di fori infinitesimi in cui piantare le nostre coscienze. […] Volevo davvero diventare un artista come credevo dovessero essere gli artisti, un individuo pronto ad affrontare le complessità del vero. E ho avuto grande successo. Mi sono ritrovato con il silenzio e con il buio, seduto e immobile, creatore di oggetti che imitano la mia predilezione.”

Enrico Scarsella
Enrico Scarsella
Nato nel '98 a L'Aquila, italo-venezuelano, laureato in Lettere Moderne, studente di Italianistica a Bologna. Drammaturgo mancato dopo un testo fallimentare e uno censurato, ex co-conduttore di un podcast su serie tv, film e musica. Scribacchio per passione corti cinematografici che non vedranno mai la luce e racconti che non avranno mai lettori. Amante delle letterature straniere, anarchico nel midollo, appassionato tanto di Wagner quanto di techno, il mio più grande nemico è il Tempo.

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