giovedì, 25 Aprile 2024

La zona grigia della responsabilità

Una delle più acute e brillanti riflessioni sulla Shoah fu quella articolata da Primo Levi ne I sommersi e i salvati intorno al tema inquietante della zona grigia: l’espressione allude ad uno dei più drammatici episodi connessi al campo di concentramento e alla struttura del Sonderkommando: si tratta di una formazione paramilitare costituita per lo più da ebrei e ideata dai nazisti all’interno del sistema concentrazionario per sopperire all’esiguo numero di unità preposte alla sorveglianza dei campi.

Il capitolo dedicato al tema della zona grigia si apre con una riflessione consequenziale al precedente capitolo sulla memoria: in quanto reduce Levi si chiede se è stato in grado di comprendere e quindi di far comprendere la propria esperienza. Al verbo comprendere Levi connette il verbo semplificare: ma perché è necessario semplificare per comprendere? Il mondo – secondo un’espressione utilizzata anche da Calvino – è un groviglio infinito che non si può comprendere a meno che non si preveda una semplificazione che riduca il conoscibile a schema: bisogna cercare di mettere ordine in quello che in realtà è un grande disordine e gli schemi che usiamo per semplificare sono spesso fallimentari.

Nel caso del sistema concentrazionario questi schemi si rivelano inutili soprattutto a partire dalla fondamentale esigenza di dividere concettualmente il campo di concentramento nei due gruppi dei vincitori e dei vinti: questa bipartizione predomina su tutte le altre e viene spesso utilizzata dalla storiografia. Ma dove finiscono le sfumature che non rientrano in questa categorizzazione? Secondo Levi questa ipotesi di lavoro non può spiegare il lager che diventa quindi uno spazio che esce dalle nostre abitudini concettuali: è una rete di rapporti umani all’interno della quale non si può ridurre i fenomeni al blocco delle vittime e dei persecutori.

C’è chi ha sostenuto che Levi ha cercato di giustificare anche i carnefici. In realtà l’autore vuole solo comprendere perché tutti gli storici che descrivono il lager partono dallo schema mentale buoni/cattivi e da quello vittime/persecutori come se ci si trovasse nel giorno del Giudizio universale: di fronte alla descrizione di questo microcosmo terribile l’ascoltatore moderno vuole uno strumento di decifrabilità per identificare il male e chiuderlo all’interno di determinati confini. Per farlo serve sostenere che laddove finisce il male inizia il bene: si tratta di uno schema mentale iscritto nella nostra mente, vogliamo costantemente sapere dove si trova il nemico all’esterno.

Questo stesso dispositivo concettuale lo ritroviamo anche ne La scuola cattolica di Albinati: la scuola maschile collocata nel quartiere in cui è nato e vissuto il narratore gli si è rivelata uno strumento costruito per scacciare il male fuori dalla porta di casa e instaurarvi un regime di bene: ma cosa accade quando il male emerge dall’interno di un luogo sicuro come la casa – che a noi pare protetto e sterilizzato – e innesca un brutale episodio della cronaca nera italiana come il delitto del Circeo?

Ritornando alla traccia principale deduciamo quindi che il lager (come la villa di Salò o le 120 giornate di Sodoma) è un luogo costruito per esercitare esplicitamente il male e tuttavia chi ne sente parlare ha bisogno di pensare di essere protetto da questo male, avvenuto lontano e all’esterno dell’ascoltatore. Varcare la soglia del lager non significa quindi entrare esclusivamente in luogo deputato all’inflizione della sofferenza ma soprattutto in un luogo indecifrabile – non c’erano modelli per spiegare il lager perché in precedenza nessuno lo aveva teorizzato – in cui viene sottratto tutto ciò che appartiene al proprio corpo e alla propria identità.

Ma il nemico non è più qualcuno da guardare de visu con la consapevolezza di essere al suo contrario portatore di principi: è talmente attorno a sé che non ha più confini. Levi è estremamente chiaro al riguardo:

il nemico era intorno ma anche dentro e il noi perdeva i suoi confini: i contendenti non erano due e non si distingueva una sola frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli: una fra ciascuno e ciascuno.

La vera operazione con la quale i nazisti pervertono le condizioni di vita fu quella di fare in modo che i prigionieri, una volta entrati nel lager, non si rivelassero un gruppo di vittime compatto contro i carnefici ma diventassero reciprocamente nemici e sorgessero delle frontiere tra gli stessi carcerati: per sopravvivere bisognerà rubare un pezzo di pane o un dito d’acqua a chi si trova accanto e bisognerà sperare che sia il proprio compagno ad essere selezionato per la camera a gas. L’idea della solidarietà scompare e s’instaura una lotta disperata tra mille monadi sigillate: crolla quel confine che ogni uomo ha inscritto nel proprio sistema mentale tra noi e gli altri – tra chi è dentro e forma una comunità e gli altri all’esterno che vogliono perpetrare violenza.

Per suffragare questa tesi Levi si chiede: qual è la prima caratteristica del sistema concentrazionario? Chi entra in un lager deve per prima cosa essere demolito e privato di qualsiasi capacità di reazione e del senso dell’individualità: il  rituale d’ingresso, che prevedeva la denudazione, la rasatura ed infine la vestizione con stracci, doveva portare ad un crollo morale ed instillare nel carcerato la consapevolezza di essere stato trasformato in un oggetto vivente nelle mani di un padrone.

Il nuovo – in tedesco si dice zugang con il significato di ingresso – si aspetta di essere accolto con solidarietà mentre i vecchi (bastavano pochi mesi per diventarlo) gli manifestano ostilità e invidia: il nuovo è appena arrivato da fuori ed è portatore dell’odore di casa e viene dunque sottoposto a scherzi crudeli, ad una vera e propria cerimonia di iniziazione che innesca un processo di abbrutimento  cui il nuovo dovrà di necessità assuefarsi: gli anziani, secondo un processo psichico elementare, individuavano nel nuovo arrivato un bersaglio sul quale scaricare la propria umiliazione.

Ecco che secondo l’autore il lager viene costruito – si tratta di un’immagine dominante nella sua rappresentazione del lager: Levi non è propriamente un intellettuale e ha in mente i classici della tradizione scolastica – sulla falsariga dell’Inferno dantesco: lo spazio tra vittime e persecutori non è vuoto ma popolato da figure turpi e patetiche che devono essere analizzate se vogliamo conoscere la specie umana e se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare: tra i salvati menzionati nel titolo ci sono anche queste figure mediane di privilegiati che sono sopravvissute grazie anche a questi comportamenti turpi: costoro furono pochi all’interno del campo di concentramento ma relativamente numerosi rispetto al numero totale di sopravvissuti.

E’ infatti vero che il reale strumento di sterminio ideato dai nazisti fu quella morte per fame che poteva essere evitata solo con un sovrappiù alimentare, a sua volta ricevuto mediante la conquista di privilegi ottenuti con astuzia ai danni di chi fu allo stesso modo prigioniero. Ed è altrettanto vero che esiste in ogni forma di convivenza una figura di privilegiato che ascende e si distacca dalla massa per alcune caratteristiche: il privilegio è endemico laddove esiste una struttura di potere ristretta che lo tollera e anzi lo incoraggia. Attraverso un coraggioso processo di estensione dal particolare all’universale, Levi sta parlando di un’attitudine vera una volta per sempre: il lager diventa dunque un microcosmo nel quale analizzare forme di comportamento costantemente riconducibili ad un macrocosmo storico.

Così, da luogo della tradizionale distinzione tra Bene e Male assoluto, il lager assume le sembianze di un laboratorio fondato su quella zona grigia di prigionieri-funzionari che separa e al contempo congiunge i due campi delle vittime e dei carnefici: la zona grigia si rivela quindi lo spazio di transizione tra il bene e il male e possiede una struttura interna complicata: contiene in sé quanto basta per confondere il bisogno tutto umano di giudicare e manda in crisi le categorie con cui giudichiamo.

Levi conclude la propria riflessione con un ultimo quesito: in che modo si possono controllare questi collaboratori – non solo ebrei ma anche appartenenti ad esempio a micro-strutture del mondo nazista come Vichy o la Repubblica di Salò – che in passato furono nemici? La risposta è assegnare loro dei compiti marginali e caricarli di colpe, insanguinarli e comprometterli quanto più possibile. L’unico vero vincolo è psicologico: devono essere costretti a compiere atti a tal punto violenti da far in loro insorgere un senso di colpa che impedirà che agiscano come nemici: costringere a compiere il male significare far contrarre il vincolo di correità.

Quest’idea di legare gli individui attraverso il sentimento della colpa era già presente in Manzoni: chi esercita il male è colpevole soprattutto perché insinua nella vittima l’idea del male stesso e ne fa potenzialmente un altro aggressore: questo è il reale vincolo attraverso cui il carnefice trova nelle vittime dei complici e – se non si può emettere un giudizio moralizzante su una persona che ha subito un pervertimento così grande rispetto alla natura umana – dobbiamo però ricordare quanto disse la regista Liliana Cavani alla presentazione de Il portiere di notte:

il carnefice e la vittima sono legati da un rapporto di identificazione e di scambio: tutti quanti noi accettiamo di recitare alternativamente l’una o l’altra parte.

ALESSANDRO LALONI

Sistema Critico
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