sabato, 04 Maggio 2024

Non è un paese per donne

Sanna Marin è stata la protagonista indiscussa nel dibattito pubblico dell’ultima settimana. Con i suoi 34 anni, è diventata in Finlandia la più giovane premier al mondo, leader di una coalizione di centro-sinistra composta da cinque partiti tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni.

Solo dalle nostre parti questo quintetto può apparire insolito. Altrove, in giro per l’Europa, la storia dell’emancipazione delle donne ha già compiuto il suo corso naturale. In Scandinavia, certo, dove le donne votano dal 1907 e guidano molte aziende chiave, ma non solo: ormai pure negli uffici del potere a Bruxelles e Francoforte. Come presidente di turno dell’Ue, Sanna Marin affianca Ursula Von der Leyen (presidente della Commissione europea) e Christine Lagarde (presidente della Banca centrale europea). Senza dimenticare che in cabina di pilotaggio della locomotiva d’Europa resta una cancelliera di nome Angela Merkel.

Sanna Marin, eletta il 10 dicembre scorso a primo ministro del governo finlandese

Donne e politica: il caso italiano

In Italia, invece, sembrano davvero insormontabili gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione della parità di genere nelle posizioni di vertice della politica. Su venti presidenti di Regione l’unica donna è la leghista Donatella Tesei, di recente eletta in Umbria. E sempre a destra troviamo l’unica segretaria di partito: Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia. Per il resto, da Leu a Italia Viva fino al MoVimento 5 Stelle, passando per la Lega e Forza Italia, a comandare sono tutti uomini. Fa parziale eccezione +Europa che, pur soffrendo attualmente forti divisioni interne, ha per fondatrice Emma Bonino.

Nel nostro paese le donne sono più numerose degli uomini: per la precisione quasi due milioni in più. Il fatto è che contano molto, ma molto di meno. Non solo nel mondo del lavoro, dove i differenziali nelle retribuzioni (gender gap) sono fra i più alti d’Europa, ma anche nella rappresentanza politica. Con una particolarità: in settant’anni, dal 1948 al 2018, le donne elette in Parlamento sono balzate dal 5% al 35%, ma la percentuale precipita bruscamente quando si tratta di accedere ad incarichi di responsabilità. Tanto è vero che, nella ormai lunga storia della nostra Repubblica, fino ad oggi mai nessuna donna ha guidato un governo. Né tanto meno è stata eletta al Quirinale.

Come spiegare il maschilismo di un paese in cui un giornalista di Libero definisce Nilde Iotti, la prima donna eletta alla presidenza della Camera, come “prosperosa, brava in cucina e a letto” e in cui il suo collega Alessandro Sallusti lo difende, sottolineando la naturale “esuberanza” delle donne emiliane? Come spiegare l’arretratezza culturale di un paese in cui la percentuale delle donne in Parlamento, nelle assemblee politiche regionali, nei CdA delle maggiori società quotate e nei board delle banche centrali è nettamente inferiore a quella di Germania e Francia?

Nilde Iotti, prima presidente della Camera dei Deputati

Per comprendere le radici di questo conservatorismo dobbiamo fare qualche passo indietro e tornare al ventennio fascista, un momento determinante per la definizione dei ruoli di genere nel nostro paese.

Mussolini e il femminismo latino: le radici del nostro conservatorismo

Quale sarà la politica del Fascismo verso le donne emerge già nel 1923 con la legge quadro sulla scuola e università firmata da Giovanni Gentile. Durante la Prima guerra mondiale, Gentile, secondo cui l’insegnante è simbolo di autorità e perciò deve essere preferibilmente uomo, aveva già lamentato che nelle scuole italiane stessero entrando troppe insegnanti donne e che il corpo insegnante si stesse femminilizzando. Per questo motivo la riforma prevede, tra le altre cose, che le donne che si iscrivono all’università paghino tasse più alte di quelle dei maschi e, per quanto riguarda il corpo docente, stabilisce che le donne, pur in possesso di una laurea e vincitrici di un concorso, non possano insegnare storia, filosofia, italiano e latino nei trienni dei Licei.

A questo punto ci potremmo chiedere: perché proprio le materie umanistiche? Gentile è un filosofo idealista e, come tale, sostiene che la storia non debba essere insegnata con i fatti, ma con una precisa visione filosofica che termini con la giustificazione e il trionfo dello Stato fascista. La storia è in qualche modo la più politica e nazionalizzante delle materie, e per questo deve essere fatta dagli uomini.

Giovanni Gentile, ministro della Pubblica Istruzione dal 1922 al 1924

Alla riforma Gentile segue, nel 1928, una legge che vieta di assumere più del 10% delle donne nelle PA. All’epoca Mussolini, già diventato dittatore con le leggi fascistissime, ha già esplicitato con il celebre discorso dell’ascensione quale sarà il posto della donna nel regime fascista. Dopo aver elencato i problemi del popolo italiano, Mussolini delinea un piano strategico che comprende un mirabolante progetto demografico per l’Italia: entro il 1950 gli italiani sarebbero dovuti diventare 60 milioni, prevedendo cioè un esorbitante aumento di circa 20 milioni in 25 anni. Il regime ha bisogno di figli perché — questa la logica fascista — solo i paesi molto popolosi sono paesi forti: se l’Italia si spopola diventerà una colonia, se popolosa erigerà un Impero. In questo senso, il compito della donna fascista è esclusivamente quello di fare figli.

A tal proposito, nel 1925 Mussolini aveva creato l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) con due finalità: assistere le ragazze madri affinché non abortissero e garantire le gravidanze difficili con l’aiuto dei medici. Sono sempre più il medico e l’ospedale a controllare il parto: ha inizio la cosiddetta “ospedalizzazione di massa” e, quella che era da sempre stata una scena totalmente femminile, diventa ad appannaggio maschile. L’istituzione dell’ONMI — nata per far partorire tutte le donne e, come sosteneva la propaganda del regime, tutte felicemente — rientrava evidentemente nel progetto natalista fascista.

Ma c’è un aspetto che sorprende più di tutti: considerate le condizioni delle casse dello Stato, l’ONMI doveva necessariamente basarsi sul lavoro volontario. E sarebbero state ferventi fasciste di buona famiglia a spendere il proprio tempo per aiutare le donne incinte: la propaganda del regime aveva a tal punto attecchito da coinvolgere le donne stesse nel consolidamento di questo modello patriarcale. Le italiane erano in gran parte fasciste, pienamente calate nel loro ruolo di madri della nazione.

All’interno della sede bresciana dell’ONMI neonati in culla sono accuditi dal personale addetto

Il progetto natalista del regime trae infine linfa da due fondamentali manifestazioni: dopo aver introdotto una riforma agraria al fine, tra le altre cose, di incoraggiare la prolificità delle mogli dei mezzadri, nel 1933 Mussolini istituisce a Roma la festa della madre fascista. Durante la cerimonia il Duce presenzia e premia le donne più prolifiche di tutta Italia: Mussolini non le chiama per nome, ma col numero dei figli. Qualche anno dopo, quando il regime decide nel 1935 di attaccare l’Etiopia per inseguire il grande sogno coloniale, viene indetta la cosiddetta giornata della fede. La propaganda fascista coinvolge le donne, chiamandole a sacrificarsi per finanziare le spese di guerra e invitandole a donare la fede nuziale, l’unico oggetto d’oro da tutte posseduto, in cambio di un attestato di benemerenza.

Adesso capiamo perché Gentile aveva inteso scoraggiare l’ambizione di carriera delle donne nell’insegnamento: la donna deve essere l’angelo del focolare. Specialmente nel primo Dopoguerra, in tempi di riconversione industriale, durante i quali c’erano già troppi disoccupati maschi.

L’attestato di benemerenza rilasciato alla signora Iolanda Casale

Parallelamente al discorso sulla donna, anche quella che si autoproclama rivoluzione fascista, come tutte le rivoluzioni, deve creare il suo uomo nuovo. Se l’ideale femminile di Mussolini, come abbiamo visto, è certamente quello della massaia contadina, il modello fascista per l’uomo prevede che i genitori smettano di educare il bambino al suo sesto anno d’età e lo iscrivano obbligatoriamente all’Opera Nazionale Balilla, l’organizzazione giovanile del partito. Qua i destini di maschi e femmine si separano e, alla fine del percorso educativo, il maschio arriva alla tessera del partito — la propaganda recita: “Libro e moschetto, fascista perfetto“. La ghettizzazione avviene anche nella sfera del tempo libero: se gli uomini devono essere sportivi per esaltare la propria virilità, le donne non possono praticare alcuno sport perché metterebbero a rischio la propria fertilità.

La logica fascista non fa una piega, ma il progetto di Mussolini non tiene conto di un problema: i fascisti della prima ora sono quasi tutti giovani e reduci, borghesi che non riescono a staccarsi dal tempo di guerra. Non possono più rinunciare alla brutalità e la loro aggressiva vitalità li spinge a cambiare donna con grande facilità. Proprio per questo motivo nel 1926 il regime introduce una tassa sul celibato: l’imposta (si trattava di un forte prelievo sul reddito) colpisce dai 25 ai 60 anni, più bassa è l’età più alto sarà l’ammontare del prelievo. Il fascista perfetto è ardito e miliziano, ma anche e soprattutto padre di numerosa prole. Il giovane picchiatore diventa padre di famiglia.

Arriviamo alle conclusioni di questo breve excursus. Possiamo dire che questo complesso apparato ideologico ha trovato la sua piena realizzazione in due testi legislativi che hanno di fatto istituzionalizzato la superiorità dell’uomo “italico” sulla donna. Il codice Rocco (1931) mette fuori legge la contraccezione, di cui si sapeva molto di più dopo la Prima guerra mondiale grazie all’invenzione dei preservativi, assieme ad ogni pubblicità di essa. L’aborto, inoltre, è un crimine gravissimo contro la nazione, sia per la donna che lo chiede sia per chi l’aiuta ad abortire. Nel 1942, invece, il regime promulga quel Codice civile fascista che sarebbe rimasto in vigore fino al 1975 e in virtù del quale il potere del marito è nettamente superiore a quello della moglie. Una delle storture più evidenti del codice? L’uomo può avere un’amante, mentre il tradimento femminile è una giusta causa di divorzio.

Mussolini chiamò tutto questo femminismo e, consapevole di sembrare contraddittorio, coniò la categoria di femminismo latino. Dipinse l’Inghilterra e gli Usa come “plutocrazie individualiste senz’anima”, in cui la donna chiede di essere anarchica e sregolata. La femminista italiana è invece una madre che non rinuncia alla femminilità, non cerca di rincorrere i diritti dell’uomo, ma possiede il suo campo d’azione che è quello domestico, in cui adempiere il proprio ruolo di madre della nazione.

La lunga permanenza della bio-politica fascista

Il regime è finito nel 1945 con la sconfitta del nazi-fascismo, ma non la tendenza dello Stato a legiferare sulla sessualità, sulla salute, sui comportamenti e sul corpo. In una parola, la bio-politica.

Nel 1961 arriva in Italia la pillola anti-concezionale, ma la possono prendere sotto prescrizione medica solo le donne sposate che soffrono di amenorrea. Con la Costituente vengono abbattute le leggi fasciste che regolavano e limitavano la partecipazione delle donne al mondo del lavoro intellettuale. Rimane tuttavia un divieto, quello di accedere alla magistratura, perché fare il giudice viene considerato un lavoro faticoso: la magistratura sarebbe stata aperta alle donne italiane soltanto nel 1963. Nello stesso anno si sarebbe anche vietato di licenziare una donna a causa del matrimonio, prima considerato come una giusta causa di licenziamento.

Nel 1970 sarebbe arrivata la parità salariale grazie al ministro del lavoro Tina Anselmi. L’ONMI viene smantellata soltanto nel 1975. Nello stesso anno viene riformato il Codice civile fascista, rimasto in vigore per altri trent’anni dalla caduta del regime: i punti principali della riforma sono il passaggio dalla potestà maritale alla potestà condivisa dei coniugi, l’eguaglianza tra di essi e l’introduzione del regime della separazione dei beni. Nel 1978 viene legalizzato l’aborto, ma la legge può funzionare a pieno regime solo dopo il referendum del 1981. Il matrimonio riparatore e il delitto d’onore vengono aboliti tra il 1981 e il 1983. Lo stupro, secondo il codice Rocco, è reato contro la morale: diventerà reato contro la persona soltanto nel 1996.

Quando è finito il fascismo?

Quando è finito il fascismo se la legge 194 è ancora oggi in larga parte disattesa e l’unica volta che viene applicata — come ha fatto il governatore del Lazio bandendo un concorso riservato ai non obiettori — scatta l’accusa di incostituzionalità?

Tra le due guerre l’Italia, insieme alla Germania di Hitler e all’URSS di Stalin, reprime l’agire e le ambizioni femminili, la libertà sessuale: totalitarismi diversi sotto ogni punto di vista si sarebbero in questo rivelati spaventosamente simili. C’è un punto di contatto tra ieri e oggi: negli anni Trenta l’Europa aveva a tal punto risentito degli effetti del crollo di Wall Street che la disoccupazione era aumentata vertiginosamente. Oggi ci siamo da poco lasciati alle spalle una crisi finanziaria e occupazionale innescata dal crollo di Lehman Brothers. In tutti i periodi di crisi sistemica e strutturale tornano, anche dopo l’età dei fascismi, messaggi di restaurazione famigliare e sessuale che mettono in discussione i diritti e il ruolo delle donne.

Il primo messaggio elettorale di Trump è stata la reintroduzione del divieto di aborto. Lo stato dell’Alabama lo ha criminalizzato. Il Brasile ha eletto Bolsonaro anche, tra le altre cose, per rendere ancora più stringenti le norme che vietano l’interruzione di gravidanza. In Italia un congresso sulla famiglia come quello che si è tenuto lo scorso marzo a Verona sarebbe stato impensabile una quindicina d’anni fa.

Ecco come il vento della restaurazione innescato dalla crisi economica, unito alle reminiscenze della bio-politica fascista, non ci rende ancora oggi un paese per donne.

Alessandro Laloni
Alessandro Laloni
Mi sono laureato in Lettere classiche a Bologna ed attualmente studio Scienze storiche. Sono il nipote che durante i pranzi con i parenti non riesce a non parlare di politica.

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