giovedì, 25 Aprile 2024

Pretendere il futuro: l’accelerazionismo marxista

Di cosa si parla quando si parla di accelerazionismo

Il capitalismo ha vinto. Le forze che attualmente delineano gli sviluppi delle società sono soggette alle inarrestabili logiche del profitto e dell’accumulazione. Spacciando questo per il migliore dei mondi possibili, il neoliberismo ha uniformato i rapporti umani, rendendoli funzioni delle dinamiche dei mercati.

Come se non bastasse, a causa del fallimento politico delle economie collettiviste e del declino ideologico del marxismo, le critiche all’attuale sistema economico vengono spesso stigmatizzate come le ridicole velleità di qualche sparuto gruppo di nostalgici.

Tuttavia, la tanto paventata super-efficienza del mercato nell’allocare consapevolmente le risorse e nel saper distribuire giustamente la ricchezza è stata portata nuovamente al banco degli imputati. L’Europa ha assistito, a partire dai primi anni del duemila, alla nascita di una peculiare quanto ambiziosa corrente di pensiero: l’accelerazionismo di sinistra.

Attraverso la pubblicazione da parte di Nick Srnicek e Alex Williams del “Manifesto per una politica accelerazionista” e del consistente libro “Inventare il futuro”, una nuova cricca è entrata a far parte del club delle cosiddette “teorie eterodosse”.

Copertina di “Inventare il Futuro” di Williams e Srnicek, pubblicato da Nero edizioni

Le radici filosofiche

La struttura ideologica dell’accelerazionismo ha come fondamenta le teorie filosofiche dei post-strutturalisti francesi Deleuze e Guattari. Prendendo le mosse dai loro concetti di deterritorializzazione e riterritorializzazione, gli accelerazionisti hanno basato la propria speculazione su di uno specifico rapporto in stile odi et amo tra il Capitale e la società occidentale. In sostanza, essi sostengono che l’implementazione dell’attuale sistema economico, liberando in principio l’umanità dagli antichi rapporti di privilegio tradizionali, l’abbia poi incastrata nuovamente in nuove gerarchie e imposizioni. Facendo ciò, le ha di fatto impedito di giovare a pieno delle potenzialità liberate dalla rivoluzione industriale.

Gli accelerazionisti giungono quindi a concludere che sia impellente il bisogno di fare un ulteriore passo in avanti. Ciò dovrebbe avvenire attraverso una decisa accelerazione, che sbaragli le nuove forme di privilegio e di controllo, liberando finalmente l’umanità rendendola padrona del proprio futuro.

Che fine ha fatto la sinistra?

Non si può capire l’accelerazionismo senza considerare il suo rapporto con la sinistra contemporanea.

La diagnosi è chiarissima: una paralisi si aggira per l’Europa, la paralisi della sinistra. L’incapacità di opporsi all’aumento delle disuguaglianze e al progressivo smantellamento del welfare non è nient’altro che il sintomo della sua inettitudine nel sapersi collocare nel presente.

Nonostante gli accelerazionisti ammettano che le dinamiche del capitale siano diventate tanto astratte quanto governate da logiche mai state così complesse, ciò non può rappresentare una giustificazione alla negligenza. Se già in passato contrastare le storture provocate dalle logiche del profitto e dell’accumulazione risultava difficile, ora più che mai bisogna conoscere il nemico per poter definire sé stessi.

Quando ciò non avviene, i risultati sono evidenti: le politiche messe in atto dalla sinistra contemporanea non possono avere nessuna pretesa né ambizione di contrastare il dominio neoliberista. Le folks politics (così vengono definite dagli autori del Manifesto le politiche di immediatezza della sinistra contemporanea) non sono sbagliate, ma sono insufficienti: la lotta politica non può ridursi soltanto a proteste rituali, resistenze nei baluardi e inneggiamento all’autenticità dei rapporti locali.

L’accelerazionismo è combattivo, e dice a chiare lettere che trincerarsi non funziona. Bisogna uscire allo scoperto, non avere paura di osare, studiare i meccanismi del presente e, soprattutto, smetterla di pensare che costruire un rifugio dagli inesorabili effetti del mercato sia l’equivalente di colpire al cuore la stessa macchina capitalistica che li produce.

Pensare che per mantenersi in vita basti incerottare le ferite rischia di portare alla morte per dissanguamento: c’è bisogno di una vera strategia che sappia condurre un vero e proprio assalto al cielo. Ogni pagina del Manifesto è intrisa di sottolineature sulla necessità di acquisire le capacità di agire contro le fondamenta del presente, per recuperare la speranza in un futuro migliore. Conoscenza, strategia, lungimiranza: senza queste, si soccombe.

Smetterla di fuggire

Dalle folks politics non si può desumere soltanto l’incapacità della sinistra di creare un’opposizione sostanziale, ma anche l’atteggiamento ambiguo assunto dalla stessa nei confronti della modernità.

Le vecchie compagini progressiste e figlie del marxismo criticavano sì il capitalismo, ma a detta degli accelerazionisti non lo confondevano con l’industrialismo. Anzi, era proprio la conquista della società industriale che a loro interessava: l’ethos della sinistra deve essere quello di ambire a gestire le forze liberate dalla modernità.

Oggi, purtroppo, la situazione è cambiata: l’anticapitalismo spesso strizza l’occhio a movimenti per la decrescita, comunitarismi e localismi di vario genere. Incapace di agire contro l’egemonia neoliberale dominante, la sinistra contemporanea cerca di creare spazi in cui sussistano rapporti umani non-capitalistici. Tuttavia, vi è un’enorme controindicazione: se lì fuori continua ad esserci una guerra, ignorarla pur di non combattere è tanto confortevole quanto vivere in un bunker.

Riprendersi la modernità

La verità, per i fautori del Manifesto, è una: la sinistra deve ritornare a sentirsi a suo agio con la modernità. Lo sviluppo tecnologico attuale consente di poter immaginare dei futuri radiosi, se sottratto alle dinamiche di allocazione e distribuzione insite nei mercati.

Il fatto che il capitalismo sia sinonimo di progresso è solo frutto di mistificazione e propaganda: esso è una piattaforma economica che ingabbia l’avanzata tecnologica liberata dalla rivoluzione industriale, sottomettendola a delle logiche ostili ad una vera idea di emancipazione dell’umanità.

I mercati deregolamentati generano, per loro stessa natura, guerre dei brevetti e monopolizzazioni delle idee. La mercificazione di dati raccolti a costo zero, ha creato un enorme mercato illegittimo. Questi dati potrebbero essere una fonte ottimale di pianificazione per tutte le imprese nel caso in cui fossero pubblici.

Sottomettendo ogni settore dell’industria ad una logica di analisi costi-benefici necessari alle imprese private, la società industriale sta perdendo occasioni di sfruttamento della capacità tecnologica significativi. Due esempi su tutti: viaggi spaziali e vaccini. Se la domanda di questi non fosse stata supportata o non fosse attualmente supportata da uno sforzo collettivo, non si sarebbero ravvisati investimenti in merito. Ma la conquista dello spazio e l’allungamento delle aspettative di vita non sono forse associate, a ragione, ad un’idea di progresso?

Il punto d’approdo della narrazione accelerazionista è scontato: Il capitalismo non è un sistema economico capace di favorire il miglioramento delle condizioni di vita. Il capitalismo è un parassita che non fa altro che piegare e frenare lo sviluppo a solo vantaggio della propria sopravvivenza. C’è bisogno di accelerare oltre lo stesso per dispiegare tutto lo sviluppo tecnologico che siamo diventati capaci di generare.

Il paradosso della disoccupazione tecnologica

Tuttavia, Williams e Srnicek sottolineano come la distorsione più pesante non consista nel mancato sviluppo dei settori non considerati come profittevoli. L’assurdità più profonda, infatti, alberga altrove. Passato il periodo d’oro della crescita senza limiti, la disoccupazione tecnologica sta diventando un fenomeno non più di breve periodo ma strutturale. Ciò significa che i salariati, sacrificati per via dell’automazione dei processi, incontreranno nel prossimo futuro sempre maggiori difficoltà ad essere riassorbiti nel mercato del lavoro.

Ma se l’automazione dovrebbe servire ad emancipare l’uomo dal lavoro, perché questa produce invece povertà crescente? È paradossale che la povertà e la disoccupazione crescano a seguito del miglioramento dei processi produttivi.

L’ideologia neoliberale ha sempre potuto evitare di fare i conti con questo paradosso. Infatti, se l’economia è in crescita (come succedeva sistematicamente fino a poco più di un decennio fa) i lavoratori licenziati possono pur sempre trovare occupazione altrove. Ma se a seguito di crisi economiche la crescita risulta stagnante, mentre l’automazione continua a sostituire i lavoratori, quali sono i risultati? L’aumento del “surplus di popolazione” è inevitabile, e sappiamo quanto questo rappresenti l’humus più fertile dal quale fioriscono facilmente criminalità e risposte politiche di pancia.

Persino i neoliberali più ortodossi sono oramai convinti che la disoccupazione tecnologica stia diventando un problema pressante. Lawrence Summers, ex segretario del tesoro degli U.S.A e professore ad Harvard, ha dichiarato di non credere più che l’automazione sia capace di creare posti di lavoro. L’opinione prevalente fra gli studiosi dell’economia, attualmente, è che l’epoca della disoccupazione tecnologica sia arrivata.

Immaginari del post-capitalismo

Ma come si accelera? Le proposte degli accelerazionisti per un’inversione di marcia sono parecchie. Esse passano dalla riduzione degli orari di lavoro all’aumento dei salari, dal reddito di base all’azionariato popolare. Ovviamente, tutto andrebbe sotto il cappello del rifiuto dell’etica del lavoro. Quest’ultima, tanto cara al neoliberismo, è solo un utile strumento attraverso il quale la lotta fra poveri riesce a perdurare ed insistere a favore di pochi beneficiari.

La proposta più interessante, di fatti, è quella di creare un meccanismo attraverso il quale le persone vengano liberate e non licenziate da una determinata occupazione. Nella sostanza, l’aumento del costo del lavoro prodotto attraverso legislazioni apposite costringerebbe le imprese a dover puntare sulla ricerca e sullo sviluppo. Quando, a seguito dell’innovazione, la mansione venisse rimpiazzata dall’automazione, i lavoratori non più necessari al processo produttivo dovrebbero essere ricompensati per il loro licenziamento. Questo potrebbe avvenire attraverso un pagamento azionario oppure attraverso la percezione di un reddito di base garantito. Ciò comporterebbe, ovviamente, un dispendio di risorse enormi, ma di fatti risulta impossibile immaginare un governo accelerazionista che non attui delle forti tassazioni patrimoniali.

Attraverso un’iterazione continua del meccanismo, sempre più lavoratori potrebbero essere liberati da mansioni ripetitive o anche complesse. Ciò metterebbe fine al paradosso della disoccupazione tecnologica, ed un processo continuo di emancipazione dal lavoro slegherebbe la percezione di un reddito dall’avere un’occupazione. Nelle più rosee aspettative, si arriverebbe al punto in cui la produzione risulti totalmente automatizzata. L’umanità potrebbe dedicarsi a qualsiasi progetto individuale o collettivo che ritenga soddisfacente senza più preoccuparsi di come sopravvivere.

Cosa rimane?

C’è bisogno di essere cauti. Le proposte riportate per il superamento del capitalismo rappresentano, di fatti, delle semplici proposte. Nessuna analisi di fattibilità si può riscontrare nelle lunghe dissertazioni, e gli stessi adepti riconoscono come il cantiere delle idee sia ancora in costruzione.

Di questo gli accelerazionisti ne sono consapevoli, e lo dimostrano invocando l’aiuto delle forze assopite della vera sinistra. Solo un ampio contributo nell’elaborazione di modelli e strategie può dare un’impalcatura stabile a quella che si propone di essere una vera e propria rivoluzione.

Ma pensare che la mancata presenza di precisi programmi sia un buon motivo per classificare le teorie accelerazioniste come curiose archeologie letterarie, è errato.

Ad esse va riconosciuto il grande merito di aver rimesso in discussione l’ipotesi, in un’epoca di stagnazione filosofica così forte, che il capitalismo sia davvero il miglior modo per controllare e sfruttare al meglio le risorse a nostra disposizione.

Il fatto che il capitalismo abbia trionfato significa che esso sia stato più forte delle alternative sperimentate, non di tutte le alternative immaginabili. Lo sviluppo della teoria economica non è un fatto scientifico: esso è il risultato di una lotta politica e di pensiero.

Accettare acriticamente i dogmi del presente significa fare il gioco dell’astuta propaganda neoliberista, sublimata nel motto thatcheriano del “there’s no alternative”. Finché la sinistra contemporanea continuerà ad accettare passivamente questa visione, si sentirà impotente nel proporre nuove strutture.

Convincersi dell’idea di poter pensare un futuro differente è il primo passo per costruire nuove possibilità.

Bisogna tenere a mente un concetto imprescindibile: senza ambizione e senza audacia, si è già perso in partenza.

Pasquale Bucci
Pasquale Buccihttps://www.sistemacritico.it/
Nato e cresciuto nell'Alto Salento, attualmente studente dell'Alma Mater. Appassionato di teorie economiche eterodosse ed "eretiche". In sostanza, il "there is no alternative" di thatcheriana memoria non mi ha mai convinto del tutto.

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