giovedì, 28 Marzo 2024

Il jihadismo femminile in Africa

Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab

Poche persone associano il terrorismo alle donne, nonostante siano da sempre state presenti all’interno dei movimenti estremisti di tutto il mondo. Nel suo ultimo libro Marco Cochi, giornalista e scrittore, ci racconta come le donne siano coinvolte nell’insorgenza di alcuni gruppi terroristici islamici in Africa. Prendendo in considerazioni due organizzazioni, Boko Haram e al-Shabaab, Cochi descrive un utilizzo strategico della partecipazione femminile.

La copertina del libro di Marco Cochi

Nonostante siano meno soggette alla radicalizzazione, negli ultimi anni le donne hanno dimostrato che il loro avvicinarsi alla causa estremista non è sempre riconducibile a ragioni indirette, come la coercizione o la manipolazione. Esse possono anche essere spinte da un desiderio di agire attivamente nell’impegno armato o ancora di più nell’indottrinamento religioso.

Gli stereotipi di genere vogliono le donne come vittime passive, incapaci di interiorizzare o abbracciare consapevolmente la dottrina islamica. Questo perché siamo abituati ad una mascolinizzazione del terrorismo.
Eppure, in un contesto come quello africano, in cui l’insorgenza jihadista sta destabilizzando cinque paesi della regione sub-sahariana, il ruolo delle donne è considerato molto importante. Dall’importanza del loro ruolo di madri, in grado di crescere i figli secondo i dettami dell’Islam radicale, al loro potenziale ruolo di reclutatrici. Per alcune di queste donne, inoltre, diventare estremiste può offrire un’importante occasione: arruolarsi può essere considerata una forma di emancipazione, quasi come se garantisse una speranza di vita migliore.

Le donne di Boko Haram

La bandiera dello stato islamico adottata da Boko Haram nel 2015

Il coinvolgimento delle donne all’intero di Boko Haram risale ai primi anni 2000 e a deciderlo fu il fondatore Ustaz Mohammed Yusuf. L’idea di Yusuf era quella di ampliare il bacino di proseliti e usare le donne come madri e educatrici della generazione combattente del domani. Nel 2009, Yusuf morì e Abubarak Shekau prese il controllo. Con il cambio di potere, Boko Haram ha iniziato a rapire le donne, arrivando a sequestrare oltre duemila giovani nel solo biennio 2014-2015. Il senso dei rapimenti era quello di estorcere riscatti, operare scambi di prigionieri o utilizzare le rapite per portare a termine attentati suicidi. Destando meno sospetti, le donne sembrano essere agenti operativi ideali anche per la possibilità di nascondere più facilmente gli ordigni esplosivi sotto le loro vesti.

Alcune donne rapite dall’organizzazione terroristica sono state sessualmente sfruttate e schiavizzate, spesso costrette a sposare un terrorista, mentre altre sono vedove in cerca di vendetta per i propri mariti uccisi dall’esercito nigeriano.

L’utilizzo di donne per compiere attacchi suicidi non solo segnala un cambiamento nelle tattiche del gruppo nigeriano, ma sottolinea anche un’evoluzione nella sua mentalità operativa.

L’idea che le donne siano vittime predestinate di Boko Haram, dice Cochi, ignora una lunga storia di sofferenza in Nigeria. Tutto ciò è dovuto al non riconoscimento dei diritti, a scarsissimi livelli di educazione e all’emarginazione a cui sono costrette le donne in quei territori. Se il governo centrale fosse riuscito a garantire maggiori tutele, si sarebbero potuti evitare tanti nuovi arruolamenti, volontari e involontari.

I rapimenti e il reinserimento

La presenza di donne nelle fila dei terroristi tende ad accrescere il senso di paura, poiché trasmette l’idea che la minaccia possa provenire da qualsiasi parte: chiunque può essere un terrorista.
Tra il 2001 e il 2017, dei 434 attacchi suicidi commissionati da Boko Haram, 244 sono stati eseguiti da donne. Moltissimi attacchi suicidi sono inoltre stati perpetrati da bambini, in special modo tra il 2014 e il 2017. Di 117 bambini, l’80% era femmina. Il sacrificio di bambine e adolescenti lascia sotto shock la popolazione locale e ha un fortissimo effetto negativo all’interno delle comunità.

Se fortunatamente una donna, di qualsiasi età, riuscisse poi a scappare dal luogo in cui era tenuta prigioniera, difficilmente potrebbe reinserirsi nel contesto in cui aveva vissuto fino al rapimento. La comunità infatti tende a rifiutare le donne rapite e abusate, ritenendole troppo contaminate dalla brutalità del gruppo. Tutto ciò rende queste donne ancora più vulnerabili e amplifica le loro difficoltà. Non riuscendo a reintegrarsi, alcune potrebbero anche preferire tornare dal gruppo terroristico, in cui probabilmente si erano unite in matrimonio con un combattente.

L’episodio più eclatante nella storia dei rapimenti di Boko Haram è sen’altro il “sequestro di Chibok“, quando i militanti rapirono 276 studentesse del liceo nel nord-est della Nigeria. Lo sconcerto sfondò i confini nazionali e turbò l’opinione pubblica del mondo intero, tanto che l’allora First Lady Michelle Obama lanciò su Twitter la campagna #BringBackOurGirls. Tuttavia, la sovraesposizione mediatica dell’accaduto garantì un palcoscenico mondiale ai terroristi. In quel monmento, Boko Haram ha compreso come l’uso delle donne per gli attentati e la violenza di genere attirasse l’attenzione. Per questo motivo, è diventato il primo gruppo terroristico al mondo a utilizzare più donne che uomini negli attentati, garantendosi un’enorme cassa di risonanza mediatica.

Le spose di al-Shabaab

All’interno dell’organizzazione al-Shabaab, nata nel 2006, le donne hanno un ruolo specifico e sempre di più sono quelle che si arruolano. Per comprendere i motivi per i quali le donne scelgano questa strada, bisogna sempre partire dalla condizione di subordinazione in cui vivono nel loro contesto familiare e sociale. Come per le donne di Boko Haram, il reclutamento può sembrare una via d’uscita e di riscatto sociale. La ricerca di vendetta contro le autorità keniane è un altro fattore che parrebbe determinante, dati i maltrattamenti subiti dalle famiglie delle donne.

Per il gruppo la presenza di una donna è importante perché potrebbe scongiurare il rilevamento della cellula da parte delle autorità. Le donne forniscono infatti un’ottima copertura sia quando operano come singole che come parte di un gruppo. Il loro coinvolgimento dentro al-Shabaab è aumentato in particolar modo dopo l’attacco al complesso alberghiero DusitD2 di Nairobi nel 2019. Le autorità locali hanno riportato che in quella occasione due donne erano state al fianco della mente dell’azione Ali Salim Gichunge.

La linea che intercorre tra reclutamento volontario e involontario è comunque molto sottile e non è detto che una strada escluda l’altra. Molte donne si sono messe in viaggio per la Somalia per abbracciare la causa di al-Shabaab, per poi essere trasformate in schiave sessuali o essere costrette a sposarsi con più uomini. Molte superstiti raccontano anche di come all’interno del gruppo fossero costrette ad assumere droghe come il khat o il bugizi, una combinazione di eroina, marijuana e rohypnol.

Se i terroristi tutelano più dello stato

Non è facile valutare il reale sostegno delle donne per al-Shabaab, poiché dalla sua affermazione in Somalia il gruppo ha promulgato subito regole molto restrittive per il loro accesso alla vita pubblica. Le donne non possono uscire senza un accompagnatore di sesso maschile e non possono interagire con uomini in pubblico. In più, sono costrette ad indossare il niqab, che prima non era previsto nella tradizione somala. Tuttavia, il movimento ha anche offerto qualche misura di protezione per le donne.

Il rispetto del diritto di famiglia islamico è garantito, le donne devono ricevere un rimborso della dote in caso di divorzio o una quota legittima di eredità se morisse il marito. L’assenza delle istituzioni statali in Somalia rende i tribunali di al-Shabaab più utili per le donne per richiedere ciò che spetta loro. In più, il gruppo punisce in maniera esemplare gli stupratori, arrivando ad intervenire in caso di violenza domestica.

Ciò che sembra importante è riconoscere che i militanti del gruppo somalo, nonostante la loro dottrina di ispirazione salafita, hanno adottato una sorta di strategia di genere, coinvolgendo le donne e in taluni casi soddisfacendo alcune delle loro esigenze.

The White Widow

Tra le terroriste più celebri del mondo del fondamentalismo islamico sicuramente è da annoverare la “vedova bianca”. Samantha Lewthwaite, definita come la terrorista più ricercata al mondo, è nata nel 1983 nell’Irlanda nel Nord. Dopo la separazione dei suoi genitori, Lewthwaite cercò conforto in una vicina famiglia mussulmana. Decise di convertirsi all’Islam all’età di 17 anni ed ebbe una svolta fondamentalista dopo il matrimonio con Abdullah Shaheed Jamal. Samantha aveva conosciuto il marito, che tre anni dopo avrebbe dilaniato 26 persone nella metro di Londra, nel 2002. Dopo la morte del coniuge, nel 2008 la donna si trasferì in Sudafrica. Qui incontrò il suo secondo marito, un altro terrorista, e insieme a lui raggiunse il Kenya, dove venne indicata come capo di una cellula estremista.

The White Widow

Cercata dalla polizia, fuggì in Somalia. Alla fine del 2011 aderì ad al-Shabaab. Secondo l’intelligence kenyana la donna avrebbe avuto il compito di addestrare aspiranti kamikaze. Il Daily Mirror nel 2014 sostenne che Samantha si sarebbe risposata una terza volta con uno dei capi dell’organizzazione.

Le tracce della terrorista si perdono, gli avvistamenti sono molteplici, come le storie sul suo conto, che la vedrebbero coinvolta in tantissimi attentati o persino deceduta. Una delle versioni più accreditate vede la terrorista trasferita in Yemen da dove avrebbe condotto degli attentati e avrebbe continuato ad addestrare proseliti. Tuttavia, le versioni sul suo conto sono troppo discordanti per averne certezza.

Esaminando i fatti con cautela, è possibile che la sua esperienza all’interno del gruppo somalo sia stata eccessivamente enfatizzata. Senz’altro innegabile è che la sua figura sia stata ed è tutt’ora di ispirazione per molte giovani donne somale e keniane che vogliono unirsi al gruppo terroristico.

Sara Valentina Natale
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Sara Valentina Natale. Laureata in Studi Internazionali, ho scelto di proseguire i miei studi con un master in Corporate Communication, Lobbying & Public Affairs a Roma . Adoro scrivere, fare polemica e bere Gin. Aspirante femminista, europeista incallita, sportiva occasionale.

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