venerdì, 26 Aprile 2024

Etiopia: i ribelli verso la capitale e il fallimento di Abiy Ahmed

Nell’Etiopia del primo ministro Abiy Ahmed Ali, insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, i combattimenti tra l’esercito e i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF) ormai proseguono da più di un anno sotto lo sguardo impotente della comunità internazionale. Il conflitto è scoppiato tra settembre e ottobre 2020, in seguito alla decisione del TPLF di indire le elezioni del consiglio di Stato nella regione del Tigray. Il gruppo ribelle ha deciso di disobbedire ad Addis Abeba che aveva rimandato le elezioni a causa della pandemia. I contrasti tra il governo centrale e il governo del Tigray si sono poi tradotti in conflitto aperto con l’attacco di alcune caserme militari da parte dei ribelli.

A dicembre 2020 la crisi sembrava essere rientrata quando Abiy Ahmed aveva annunciato la ripresa della capitale del Tigray, Macallè, dichiarando la fine della guerra. Ma il primo ministro non ha fatto i conti con il contrattacco dei ribelli tigrini che a giugno 2021 avevano riconquistato la città. L’offensiva ha invertito le sorti del conflitto in favore del TPLF. Infatti, da quel momento ha continuato a ottenere successi contro l’esercito federale etiope, considerato tra i più potenti dell’Africa subsahariana. E oggi i combattenti del TPLF si avvicinano alla capitale Addis Abeba minacciando la tenuta dello Stato etiope, mentre Abiy Ahmed esorta la popolazione ad armarsi e combattere, al contempo affermando che l’avanzata dei ribelli sia una fake news diffusa dai “nemici dell’Etiopia”.

La crisi umanitaria e i crimini di guerra

Dall’inizio del conflitto il governo etiope ha limitato fortemente l’accesso ai giornalisti internazionali nelle zone di guerra. A causa di tale chiusura le notizie sul conflitto e le condizioni di vita della popolazione civile sono arrivate a intermittenza. Tuttavia, le poche informazioni uscite dal Tigray ritraggono uno scenario raccapricciante.

Tutte le parti coinvolte si sono macchiate di gravi crimini tra cui esecuzioni extragiudiziarie di civili e sistematiche violenze sessuali. Secondo le stime dell’ONU, a dicembre 2020 i combattimenti hanno causato più di un milione di profughi interni, mentre almeno 50.000 persone hanno trovato rifugio nel vicino Sudan.

Inoltre, l’esercito federale sta usando la fame come vera e propria arma. Infatti, la carestia causata dalla guerra ha colpito quasi la totalità della popolazione del Tigray. Intanto, il governo ha ostacolato anche l’arrivo di aiuti umanitari, deciso a isolare la regione ribelle. Alcuni volontari internazionali sono stati arrestati e picchiati, altri uccisi. Intanto, i campi coltivabili sono in stato di abbandono a causa del blocco delle strade e delle minacce dei soldati rivolte ai contadini.

Un’occasione mancata per l’Etiopia di Abiy Ahmed

Dai primi giorni dell’insediamento del suo governo, Abiy Ahmed si è voluto presentare come il volto riformista di una nuova Etiopia, democratica e pluralista. L’obiettivo era quello di superare le divisioni etniche e ampliare il diritto all’opposizione includendo le posizioni antigovernative all’interno del sistema. Il fatto che Abiy Ahmed fosse di etnia oromo, maggioritaria nel paese ma da sempre marginalizzata, era una prova del cambiamento in atto. Un altro segno del progressismo del nuovo primo ministro è stata la nomina di Sahle-Work Zewde come Presidente della Repubblica, prima donna ad assumere il ruolo di Capo di Stato in un paese africano.

A convincere l’opinione pubblica straniera è stata soprattutto la pace con l’Eritrea, decisione che è valsa il premio Nobel per la pace al politico etiope. Abiy Ahmed ha messo fine a un conflitto fratricida normalizzando i rapporti con un paese ostile, indipendente dal 1991 dopo anni di guerriglia secessionista contro l’Etiopia.

Sorprendentemente, la normalizzazione dei rapporti tra Asmara e Addis Abeba ha avuto uno sviluppo ulteriore. Infatti, nel conflitto del Tigray l’Eritrea del dittatore Isaias Afewerki si è schierata al fianco dell’Etiopia. Il paese è diventato un alleato imprescindibile del governo di Addis Abeba, inviando truppe e fornendo supporto logistico contro il TPLF.

Così le speranze date dai segnali di apertura e democratizzazione sono andate a infrangersi contro le atrocità della guerra del Tigray, un conflitto che, oltre la reputazione di Abiy Ahmed, ora rischia di mettere a repentaglio gli equilibri interetnici del paese.

Il crollo reputazionale e il rischio di instabilità della regione

L’avanzata delle milizie del TPLF, forti anche del sostegno dei ribelli dell’Esercito di Liberazione Oromo, fa tremare Addis Abeba, nodo commerciale vitale per tutto il paese. Spesso considerata la “capitale d’Africa”, l’eventuale presa della città avrebbe delle implicazioni ben più grandi. Ad Addis Abeba hanno sede l’Unione Africana, numerose rappresentanze diplomatiche straniere e vari uffici dell’ONU, tra cui la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa. La sconfitta sul piano simbolico è evidente, mentre l’impatto sul funzionamento di queste istituzioni internazionali rimane incerto.

Ma a preoccupare davvero la comunità internazionale è la propagazione dell’instabilità oltre la regione del Tigray. La balcanizzazione dell’Etiopia è sempre più una possibilità reale, essendo la figura di Abiy Ahmed insufficiente a impersonare l’unità del paese, così come lui avrebbe voluto. Il delicato mosaico di popoli alla base dello Stato etiope rischia di collassare, sotto le spinte secessioniste di gruppi come gli oromo, i somali e gli afar.

E la crisi potrebbe debordare facilmente nei paesi vicini, dal momento che l’Etiopia spesso ha avuto un ruolo chiave nel mantenimento della stabilità politica nell’intera regione del Corno d’Africa. Nelle zone di confine ci sono già stati scontri occasionali tra il Sudan, reduce dall’ennesimo colpo di stato, e le truppe etiopi impegnate nel Tigray.

Ciò che sta avvenendo in Etiopia è la caduta di un mito: il gigante del Corno d’Africa, con 115 milioni di abitanti, una vivace crescita economica e una storia secolare alle spalle, alla luce degli ultimi avvenimenti potrà ancora svolgere il ruolo di rappresentante istituzionale e diplomatico del continente africano nel mondo?

Massimiliano Marra
Massimiliano Marrahttps://www.sistemacritico.it/
Di radici italo-cilene ma luganese di nascita, attualmente studio economia e politiche internazionali all’Università della Svizzera Italiana e mi interesso di storia e relazioni internazionali con un occhio di riguardo ai contesti extraeuropei. Nel tempo libero suono il basso elettrico e vado in burn out di musica.

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