venerdì, 29 Marzo 2024

L’antropologia è donna

In questo articolo sul percorso dell’antropologia di genere andremo ad analizzare le difficoltà delle più grandi antropologhe nell’affermarsi nell’ambiente accademico. Un contesto ostile e non proprio ben disposto nei confronti della presenza femminile.

In seguito a spiacevoli fatti avvenuti nel 1840 presso la Word Anti-Slavery Convention di Londra, durante la quale alle due attiviste Lucretia Mott e Elizabeth Stanton è stato impedito di prendere la parola in pubblico in quanto donne, esse decisero di fondare il movimento per i diritti delle donne negli Stati Uniti.

Questo movimento ebbe il suo vero inizio con la Seneca Falls Convention del 1848. Qui è stata letta la famosa Declaration Of Rights and Sentiments. Nel documento, redatto sul modello della Dichiarazione d’Indipendenza americana, sono elencate le ingiustizie compiute ai danni del genere femminile.

E attraverso lo stesso viene affermata l’uguaglianza tra i sessi. Il testo ricevette 68 firme di donne e 32 di uomini, per un totale di 100 firme su 300 partecipanti.

Declaration of Sentiments

I primi passi

È giusto affermare che, grazie ai movimenti femministi di fine ‘800, si apre la strada per le antropologhe donne che cercano di trasferire le loro idee progressiste nella ricerca.

Le pioniere di questi studi furono Matilda Stevenson, Alice Fletcher ed Elsie Parsons, che insieme ad altre sette studiose, fondarono la Women’s Anthropological Society of America (WASA) nel 1885.

I tempi erano ormai quelli giusti per dare il via alla presenza delle donne in questo nuovo settore: l’antropologia. Fu da subito evidente che esse ricoprivano un ruolo fondamentale durante la ricerca presso la parte femminile delle popolazioni “tribali” prese in esame. Solo le donne etnologhe avrebbero potuto ottenere informazioni dettagliate sulla dimensione privata di altre donne. Matilda Coxe Stevenson, come scrisse uno studioso quasi cento anni dopo, fu la prima ricercatrice a ritenere donne e bambini “worth of notice”.

Il percorso delle donne all’interno di questo settore non fu lineare per tutte: se Stevenson e Fletcher ottennero numerosi riconoscimenti, molte altre etnologhe non riusciranno nemmeno ad entrare a far parte del mondo accademico, rimanendo ancora ai margini di un ambiente molto selettivo e misogino.

Parsons, la miglior allieva di Boas

L’analisi delle popolazioni “primitive” perpetrata dalle antropologhe portò in superficie nuovi quesiti tuttora dibattuti. Ed Elsie Clews Parsons è un’altra importantissima figura di cui trattare.

Parsons fu la prima allieva donna del grande antropologo Franz Boas. Inoltre, fu la prima a indagare un punto di svolta: “come si possono ritenere naturali o universali i nostri ruoli maschili e femminili, quando nelle società tribali essi sono diversi?”

Questa situazione definita “naturale” per comodità fa si che le donne non possano ambire a niente di più del divenire “brave” mogli o madri. I ruoli di genere sono soffocanti e stereotipati, per entrambi i sessi. Questi portano gli esseri umani a soffrire e ad assestarsi in una situazione infruttuosa per tutti.

Parsons ebbe il coraggio di pensare fuori dagli schemi. E le sue idee sono state spesso derise e accantonate, in quanto troppo radicali o avanguardiste: il “matrimonio di prova” fu solo una delle proposte che presentò all’interno del suo libro. La libertà di scelta individuale fu, senza dubbio, il filo rosso che accompagnò la sua ricerca dall’inizio alla fine.

Benedict e Mead

Proseguendo con l’ analisi in modo diacronico, figure chiave dell’antropologia di genere di primo e metà novecento furono Ruth Benedict e Margaret Mead. Le due portarono avanti in modo brillante il quesito di Elsie Parsons riguardo i ruoli di genere, tentando di chiarire il più possibile la questione. Le ricercatrici, forse anche per i loro trascorsi personali (Benedict e Mead, infatti, ebbero una relazione), analizzarono anche il tema dell’omosessualità nelle varie culture. Sebbene sulla loro relazione non abbiamo dichiarazioni, sappiamo che fu fondamentale per entrambe: furono un supporto emotivo reciproco in quest’epoca tuttora bigotta.

Margaret Mead si può definire una vera “figlia dei fiori”. Infatti, il suo interesse per la pace, per le tematiche sociali e riguardanti la sessualità, la resero un’icona nell’ambiente antropologico. Tutti gli studenti della facoltà leggevano i suoi scritti negli anni ’60: la ritenevano una vera rivoluzionaria.

“In un’epoca in cui Bob Dylan cantava The Times They Are a-Changing, il significato del cambiamento aveva una grossa rilevanza”: racconta l’etnologa laureata alla Berkeley, Mary Pipher.

“Sex and Temperament” scritto da Mead nel 1935, è uno dei primi lavori che suggerisce quanto la mascolinità e la femminilità riflettano dei condizionamenti esterni e culturali, non determinate interamente dalla biologia. Ovviamente, grazie all’avanguardia del tema, il testo diventerà negli anni successivi una pietra miliare per la riflessione sul genere.

Simone De Beauvoir

Proprio alla fine degli anni ‘40 Simone De Beauvoir pubblica “Il Secondo Sesso”. Nel mentre, Lévi-Strauss rilascia dichiarazioni disturbanti per il mondo femminista nel suo libro “Le Strutture Elementari Della Parentela”, in cui si definisce la donna “il bene di scambio”.

Il testo di De Beauvoir è, prima di tutto, un’opera filosofica dove si parla del sé come sé di fronte all’altro (la donna è altro rispetto all’uomo). De Beauvoir illustra come le donne siano obbligate a rinunciare alla loro autentica soggettività per accettare un ruolo passivo e alienato di fronte al ruolo attivo maschile.

Le questioni di genere oggi

Grazie alla ricerca svolta dalle donne sopra citate si sono posti numerosi quesiti riguardo al ruolo del genere femminile e solo tramite questi interrogativi, negli ultimi anni, cerchiamo di dare risposte. Se prima il problema non era neanche presente, ora è chiaro ed è fondamentale risolverlo. Progressivamente, le antropologhe esaminate in questa rassegna sono riuscite a farsi strada nell’ambiente accademico. In un contesto che le relegava al silenzio, hanno traslato le loro difficoltà fino al mondo esterno.

In un mondo in cui le problematiche di genere erano secondarie perché il “sesso forte” non ne risentiva, è stato compito delle donne che sono riuscite a ottenere udienza usare quest’ultima per presentare le preoccupazioni che accomunano tutte e insistere affinché queste si considerassero.

Fonti: “Antropologia di Genere” di Giovanna Campani, professoressa di Antropologia di Genere presso l’Università di Firenze, Editrice Rosemberg & Selier, 2018.

Benedetta Mancini
Benedetta Mancini
Studentessa di lettere moderne che ora è passata al mondo della comunicazione, fan della cultura in tutte le sue forme...il mio guilty pleasure è quella pop. Tratti salienti: un po’ troppo amante delle virgole.

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