sabato, 27 Aprile 2024

Attivismo femminista con Valeria Fonte

In una lunga chiacchierata con Valeria Fonte, attivista femminista molto attiva sui social media, ci siamo fatti spiegare gli elementi essenziali dell’attivismo femminista e di come l’utilizzo dei social come medium ha modellato e notevolmente amplificato l’eco delle battaglie per la parità di diritti. Un viaggio tra percorso individuale, ostacoli, momenti decisivi e prospettive future. Fonte ci ha accompagnato in un lungo racconto dello stato delle battaglie in Italia e di cosa possiamo fare tutte e tutti noi per cambiare le cose nelle nostre esperienze.

Valeria fonte è un’attivista e divulgatrice, laureata in Lettere e ora studente magistrale di Italianistica a Bologna. Attivista seguitissima sui social ed ormai ospite importante in numerose rassegne di eventi femministi, lavora spesso nelle scuole e nelle università per “scassare il cazzo”, come afferma lei. Sostituibile con “occuparsi di questioni di genere” e nello specifico di condivisione non consensuale di materiale sessuale.

Cosa significa essere attivista? Qual è il percorso che hai intrapreso?

«Ho cominciato senza volerlo, un paio di anni fa (nel 2019) quando sono stata vittima di condivisione non consensuale di materiale sessuale. È arrivato un ciclone, tra richieste di interviste e telegiornali, mi sono ritrovata nel marasma social all’improvviso. Mi sono quindi messa a parlare di quelle questioni, partendo dal tema della condivisione non consensuale (revenge porn). All’inizio pensavo di non saperlo fare e di non avere i mezzi; poi mi sono messa a leggere tantissimo per un percorso di formazione molto profondo. Mi sono messa a smontare tutti i preconcetti che io stessa avevo appreso e interiorizzato. Ho cominciato, in realtà, per interesse personale, per riscattare l’idea mainstream delle vittime di condivisione non consensuale di materiale sessuale.

Poi, ovviamente, col tempo è normale che si inizi ad ascoltare e a sodalizzare con chi ha gli stessi problemi. L’attivismo è essenziale per uscire dagli schemi di oggi. Gli attivisti sono come i poeti: hanno il potere di dire le cose in maniera diversa e di sconvolgere i canoni. È avvenuto tutto questo perché ho imparato ad ascoltare gli altri. Quello che può succedere è creare delle bolle e non saper uscirne: bisogna dover essere capaci di rivolgersi anche a chi non ha conoscenza di queste questioni, partendo dalle basi.»

Femminismo e lotte per la parità. A che punto siamo in Italia e quali sono i tuoi punti di riferimento?

«I miei punti di riferimento non sono le persone, ma gli ideali. Non bisogna idolatrare le persone, mi sono rivolta a delle idee piuttosto. Quando creiamo simulacri pensiamo che le persone non possano più sbagliare, ma dobbiamo ricordarci che le persone sono fallibili. Rimaniamo spesso sconvolti quando i nostri idoli sbagliano. Per questo Io non ho idoli, seguo gli ideali.
Una cosa a cui tengo è legittimare l’odio, che spesso si pensa sia brutto e debba essere respinto. L’odio e la rabbia sono piuttosto il motore delle nostre battaglie. In Italia siamo nella merda (ndr ride) purtroppo! Ci mancano le basi. Faccio due esempi: i media, che sono lo specchio della realtà, sono la riproduzione non della verità, ma di come viviamo la verità. I media si pongono sempre dalla parte dello sguardo dell’italiano medio. Come il caso di Samantha Cristoforetti, quando fu ribattezzata “astromamma”.
Altro esempio. In Italia abbiamo problemi quando chiamiamo i mestieri al femminile perché le donne non sono riconosciute dal punto di vista linguistico e istituzionale. Per non parlare dello stipendio minimo e delle questioni legate alla maternità. Si dice che noi italiani, in alcuni ambiti, siamo andati più avanti a livello di civilizzazione. In realtà la linea è molto più sottile perché l’Italia è profondamente incivile, anche se non sta sganciando bombe come la Russia. La violenza non è solo quella visibile, siamo indietro su tantissimi fronti. Anzi, l’unico modo per civilizzare l’Italia sarebbe adottare una prospettiva femminista.»

Femminismo e corpo. Quale rapporto? In che modo i corpi possono diventare l’epicentro per le battaglie femministe?

«Spesso mi sento dire che non si può combattere se si è svestite. Perché si crede che la credibilità debba passare dai corpi vestiti? Quando abbiamo stabilito che la credibilità deve essere seriosa? Tutto quello che viene reputato non credibile è spesso deputato ai corpi. Le donne cercano di mascolinizzarsi cercando un rigore interno quando arrivano al potere, cercando di essere sobrie e moderate per acquisire credibilità. Ci hanno raccontato fin da bambine che per assumere credibilità bisognava mascolinizzare i corpi. Poi basta pochissimo per far incazzare maschi, mettendo una gonna o mettendo un vestito un po’ più scoperto. I maschi possono essere incoerenti e rimanere credibili, non sono veramente rigorosi perché ai maschi è concesso tutto.
Quindi ho iniziato a scoprirmi, per provocare e suscitare una riflessione. Andavo in spiaggia in topless, creando intorno a me una situazione di disagio. Se non partiamo dal corpo, da cosa vogliamo partire? Ci hanno sempre recriminato che i nostri corpi dovessero essere specchio dei desideri maschili o della società patriarcale in generale. Tu prova a vedere cosa succede quando esibiamo i corpi! Si crea un delirio, uno scarto emotivo. Le persone ti rimproverano, il tuo corpo crea reazioni allucinanti che un corpo maschile nudo non creerebbe. Quando tu decidi di vestirti o di svestirti sei tu che sei consapevole di quello che fai, non ti viene imposto.»

Il femminismo deve essere intersezionale? In che modo si lega, ad esempio, ad economia, politica, ambiente e tanti altri temi di attualità?

«Oggi si parla di post-femminismo. L’atteggiamento liberale lo intende come un femminismo che non serve più, poiché le donne hanno tutto quello che desiderano. Il post-femminismo abolisce ogni tipo di intersezionalità: si dimenticano del fatto che questo succede solo con donne ricche, donne bianche e borghesi, ma dall’altra parte c’è un mondo di persone dimenticate. Ci sono donne povere, donne che fanno sex-work. Che fine fanno? Perché sono considerate l’ultima ruota del carro: questo è un femminismo bianco e liberale, che porta le donne a cercare di essere come gli uomini.

Questo è il problema degli idoli, si crea la beatitudine di una sola donna che le altre cercano di emulare. Il femminismo ha bisogno di incanalare i suoi precetti su tutta una serie di considerazioni sociali (di classe e di lavoro, ad esempio). Se ci dimentichiamo le donne nere, abbiamo un progetto femminista fallimentare, o come quando parliamo di donne transgender. Come si parla di donne transgender? Ci sono lacune mostruose nei media e nella narrazione, molte persone non vengono rappresentate e non si conoscono i temi.
Perché in Italia non si interpellano mai le persone che vivono quelle condizioni? Guardiamo ad esempio al caso Zalone, che parla di persone trans a Sanremo in quei termini. Chiediamoci: io di cosa sto ridendo? Sto ridendo di un uomo di mezza età che fa il comico o delle persone transgender? Nella narrazione mainstream le persone trans non sono parte del sistema, ma vengono considerate qualcosa “in più” da aggiungere a quel sistema, come se non ne facessero già parte. La soluzione è partire dall’educazione nelle scuole, dalle elementari. Ai bambini viene richiesto di rinunciare alla loro intersezionalità, viene loro richiesto di essere socializzati in quanto maschi o in quanto femmine, ad interiorizzare gli stereotipi. Già da bambini viene richiesto di semplificare la loro visione delle cose

Femminismo per gli uomini. Come si supera la barriera comunicativa per i maschi? Come dovrebbero essere coinvolti nelle lotte femministe?

«Per aprire un dialogo tra oppressi e oppressori bisogna smettere di dividere il mondo tra oppressi e oppressori, non ci sono solo carnefici e solo vittime perché i ruoli possono essere scambiati. Ci sono delle contaminazioni reciproche di cui bisogna tenere conto. Dividere il mondo in buoni e cattivi non va bene. Dobbiamo capire che ci sono tantissime cose in comune, non solo il patriarcato riduce l’agency delle donne, ma lo fa anche con gli uomini.
Come quando agli uomini viene richiesto di reprimere i propri sentimenti e le proprie “inclinazioni femminili”: i maschi devono richiamare tutta una serie di standard di virilità e forza che non possono lasciarsi indietro. Spesso i maschi recriminano alle femmine una serie di comportamenti cercando di reprimere con violenza certe cose perché sono stati abituati alla mediocrità e a rinunciare alla complessità, conformandosi agli altri maschi, al branco. Sono educati ad agire in un certo modo anche quando non vengono visti dal branco perché quelle cose le hanno interiorizzate. Nei maschi c’è una paura fortissima nel prendere posizione con gli altri maschi. Ci si auto-mutila in questa situazione complessa, cercando di sopravvivere in un habitat in cui non si sta bene, perché non esistono altre categorizzazioni di maschi in cui si possono riconoscere. Se si devia dallo standard, si perdono tutti i punti di riferimento.
La prima cosa che bisogna dire quindi è “yes all men” in risposta al “not all men”. Quando mi rivolgo ai maschi, quello che faccio è partire da una domanda generale, tipo “hai mai picchiato una donna?”, e poi dopo aver risposto si passa a domande più incalzanti tipo “hai mai detto troia ad una perché si veste in un certo modo”? o “hai mai inviato materiale senza consenso?”. Una serie di domande a cui è impossibile rispondere a tutte no, qualche atteggiamento maschilista o misogino l’hanno avuto tutti. È quando rispondono a quelle domande che inizia il dibattito, i maschi si rendono conto che molti atteggiamenti che hanno interiorizzato sono nocivi per gli altri, si mettono in ascolto. Si inizia quindi con una presa di coscienza dei propri privilegi.

Il femminismo ricordiamoci che vuole i maschi nel discorso. La cosa peggiore che può succedere ai maschi quando una donna si definisce misandrica (semmai lo fosse veramente eh) è che poi non vengano inclusi nel dibattito femminista. Ci sono sempre zero morti e zero feriti. L’atteggiamento di potere che li vede continuamente in mezzo alla scena come protagonisti viene a mancare e crea uno scacco così forte che l’indifferenza alla loro presenza li tramortisce. Sono sempre stati abituati ad essere al centro dell’attenzione e non gli piace quando non sono protagonisti.»

Massimiliano Garavalli
Massimiliano Garavalli
Coordinatore e fondatore di Sistema Critico. Amo leggere e scrivere, soprattutto di filosofia, economia e politica. Poeta a tempo perso, aspirante cabarettista di saloni vuoti. Classe '97, vivo a cavallo tra Pesaro ed Urbino. Sono laureato in economia, ma non vi dirò come investire i vostri soldi. Sistema Critico, per me, è lo spazio dove possiamo parlare e riflettere insieme sulle questioni più profonde che il Mondo ci pone ogni giorno.

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