venerdì, 29 Marzo 2024

Iran, come rapportarsi? Idee per migliorare la convivenza internazionale

La Repubblica Islamica d’Iran non è mai stata così sola. La pressione internazionale subita negli ultimi mesi da parte di tutta una schiera di avversari politici (regionali e non) ha raggiunto livelli impronosticabili. Ma il 2020 non è un caso unico da questo punto di vista, anzi: si inserisce lungo un path storico di durata ben maggiore.

L’Iran è da ormai oltre quarant’anni un paria internazionale in modo più o meno dichiarato, con periodi di allentamento ed altri di peggioramento. Certo, la teocrazia sciita non ha fatto molto per svincolarsi da questa spiacevole condizione. Da un punto di vista prettamente morale, Teheran non è una parte da cui è facile schierarsi: a metà tra errore storico e idiosincrasia del 21^ secolo, con posizioni ideologiche spesso inaccettabili e tutt’altro che irreprensibile in politica estera, rappresenta in termini “filosofici” tutto ciò che l’Occidente rigetta da decenni. Rimane però necessario ricordarsi come la moralità in politica estera sia un concetto sdrucciolevole, difficile da sposare in toto per qualunque stato. E che, per quanto ovviamente gli obiettivi di ciascun attore internazionale siano fortemente condizionati dalle sue convinzioni morali e di giustizia, ciò non deve essere a discapito di un sano pragmatismo.

L’Iran è una delle tre potenze regionali mediorientali, assieme ad Israele ed Arabia Saudita (se consideriamo la Turchia come esterna all’area). Delle tre, è seconda sia per GDP (426 mld USD) che per spesa militare (16 mld USD), in entrambi i casi dietro ai sauditi. Da anni soffre economicamente a causa dell’andare e venire delle sanzioni statunitensi, inizialmente legate all’Accordo sul Nucleare, ma che in realtà dipendono da fattori contingenti. In un contesto di sanzioni attive (dal 2018), il 2020 iraniano è stato un susseguirsi di colpi subiti più o meno gravi, di natura sia politica che militare.

Iran: un 2020 difficile

Il caso più eclatante risale a gennaio e all’uccisione, per mano degli Stati Uniti, del generale Qasem Soleimani, capo delle forze Quds. La crisi che ne è seguita è stata la dimostrazione lampante delle difficoltà di reazione di Teheran, pur se colpita al cuore. La “vendetta” proclamata dall’ayatollah Khamenei si è rivelata solo un debole gioco mediatico rivolto a consolare lo sdegno della popolazione.

Identica apatia si è avuta a seguito di due successive azioni militari ad agosto e novembre, che hanno rivelato l’esistenza di un’attrezzatissima, e molto intraprendente, cellula israeliana nel paese: prima l’uccisione di al-Masri, vice di al-Qaida, nelle strade della capitale iraniana; poi quella dello scienziato nucleare Fakhrizadeh, eliminato a colpi d’arma da fuoco lungo un’arteria stradale nei pressi di Teheran. La presenza di agenti del Mossad attivi sul proprio territorio, fatto che Israele nemmeno ha smentito, è un colpo gravissimo per la sovranità nazionale iraniana. Eppure, ancora una volta la reazione è stata minima.

Le ragioni della non-reazione

Perché una simile passività da parte di una nazione che, comunque, rimane una potenza regionale e non è certo sprovvista di forza militare? Due sono i motivi principali:

La composizione interna

L’Iran ha una delle strutture politico-istituzionali più complicate e controintuitive del mondo. Anche da questo deriva la sua componente idiosincratica. L’Occidente fatica a capire il particolarissimo intersecarsi di elementi totalitari, democratici, elettorali, terroristici, criminali, multilaterali, autarchici ecc. L’Iran è uno stato dove, mentre si discute con grande partecipazione in Parlamento una questione importante di politica interna a cui il governo si dovrà conformare, a poche vie di distanza un pluriricercato jihadista internazionale nuota nella piscina di un hotel a una corsia di distanza da un diplomatico americano, tutto ciò mentre elementi chiave dei vertici pubblici guidano un esercito di fanatici nella vicina Iraq contro le forze dell’ISIS. Troppe contraddizioni, insomma. Il punto centrale è che la struttura statale non è monolitica, anzi, semmai il contrario. E questa mancanza di coesione “tra falchi e colombe” si ripercuote inevitabilmente a livello di politica estera.

La grande pressione internazionale

Gli Stati Uniti sono da quarant’anni impegnati a demonizzare (spesso con ragione, talvolta meno) quello che, prima del 1979, era il loro principale alleato mediorientale. Israele ha con Teheran rapporti peggiori che con qualunque altra entità nazionale (esclusa solo la Palestina), e le due potenze si scambiano da anni minacce neanche tanto velate. Infine l’Arabia Saudita è da decenni il grande rivale geopolitico dell’area, e con essa tutta la schiera di stati sunniti del Golfo e non. Bahrain, Qatar, UAE, Kuwait, fino ad arrivare agli stati del Nordafrica, sono tutte nazioni sunnite separate anche religiosamente dall’Iran sciita.

La quasi-secolare alleanza saudita-americana e gli strettissimi rapporti israelo-statunitensi sono ben noti. Negli ultimi mesi, l’avvicinamento tra Israele e il Golfo (Bahrain, Emirati Arabi) con l’obiettivo di arrivare a un patto israelo-saudita è stata altrettanto in vista. Tutti questi rapporti hanno un elemento in comune: la chiave anti-iraniana. Persino la Turchia, che pur ha i suoi problemi con il trittico sopracitato, partecipa nella sua funzione anti-Teheran. Questa composizione di alleanze comporta una gran libertà di movimento nell’area per israeliani, sauditi e americani. Le remore a colpire Teheran, anche in modo palese, sono poche. E la reazione del gigante del Golfo Persico è impossibile, a causa dell’accerchiamento.

Le ragioni storiche dell’isolamento

L’ex-Persia un tempo non soffriva di questi problemi ed era, anzi, un importante alleato del mondo occidentale. Ciò a dimostrazione del fatto che la condizione di paria che contraddistingue l’Iran moderna deriva da precise cause storiche e istituzionali, e non da una condizione ontologica. Prima della Rivoluzione, gli americani erano talmente convinti del valore della loro alleanza con l’Iran da salvare la pelle dello Shah Pahlavi in occasione del tentato golpe liberale di Mossadeq e da proteggerlo in numerosi altri momenti. L’inefficienza del governo e la continua ingerenza straniera furono proprio le molle principali che fecero scattare il cambio di regime del 1979.

Ciò che accadde quell’anno è da decenni al centro di approfondita ricerca storica e rimane una ferita aperta alla comprensione occidentale dell’”arcipelago Iran”. Il nuovo regime teocratico-repubblicano, con tutte le contraddizioni già accennate, ebbe un pessimo impatto con il mondo delle relazioni internazionali. Pochi casi simili vengono alla memoria: l’Iran khomeinista, prodotto della Rivoluzione, fu per almeno dieci anni un autentico corpo alieno in politica estera. Nessuna ambasciata, nessun tavolo negoziale aperto, nessun dialogo, nessun alleato. Unico contatto, ma decisamente poco amichevole: la crisi degli ostaggi con gli USA nei giorni della Rivoluzione e il maldestro tentativo di liberazione tentato dalla Presidenza Carter.

Visto dalla prospettiva occidentale, il regime sorto a Teheran era una mostruosità, un colossale errore della storia, un orrore della peggior specie. Dal punto di vista di Teheran, il regime seppe riconoscere la propria peculiarità e di accorgersi della propria vulnerabilità. Nato grazie una congiunzione storica eccezionale, la “morte in culla” era il principale problema da evitare. E, essendo una rivoluzione molto sui generis, la fase di consolidamento post-insurrezionale dovette essere lunga, profonda, articolata. La somma di tutti questi elementi escluse l’Iran dalla politica internazionale per tutta la prima fase della sua “nuova esistenza”.

L’evoluzione dagli anni 80

Tra il 1980 e il 1988 il neonato regime combatté per la propria stessa sopravvivenza in una sanguinosissima guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. La retorica del conflitto si caricò rapidamente di connotati etnico-religiosi e settari, Baghdad ottenne un supporto tout court globale ma non bastò. L’Iran sopravvisse a questa prima sfida esistenziale e cementò la propria struttura sull’eredità del 79 e della successiva guerra. Certo, a costo di un numero di morti apocalittico (vicino al milione), sommando i giorni del regime change, la guerra e le successive purghe.

Gli anni successivi videro un allentamento dell’isolamento iraniano. Nel 1989 morì Khomeini, incarnazione della sopracitata “mostruosità” del regime iraniano, e a lui succedette il più malleabile Khamenei. I vent’anni che seguirono videro il progressivo reinserimento dell’Iran nell’arena internazionale, anche grazie al governo moderato e riformista di Khatami, a cavallo del millennio.

Le scorie della prima fase, però, sono un trauma mai del tutto superato per l’Occidente. Essendo l’Iran di oggi espressione di diretta continuità con quella rivoluzionaria dei primi anni 80, i rapporti reciproci rimangono farraginosi. A titolo di esempio, è rimarchevole come nel 2001, proprio nel momento della sua massima attività riformistica, l’Iran sia stato inserito da Bush jr. nel tristemente noto elenco dei paesi facenti parte dell’”Asse del Male”, assieme ad Iraq e Corea del Nord. Un chiaro segnale delle difficoltà occidentali ad assumere un atteggiamento più conciliante e meno dogmatico, che però è assolutamente necessario.

Perchè serve un nuovo approccio?

Le relazioni tra Iran e resto del mondo meriterebbero una revisione d’approccio, per giungere a un migliore funzionamento generale. Applicando un concetto filosofico, è necessario recuperare un atteggiamento costruttivista. Cosa significa? In questo caso specifico, che gli stati (e le relazioni tra stati) non sono monoliti “predestinati” a fare questo o quello, intrinsecamente guerrafondai o pacifici, corrotti o onesti, minacciosi o innocui. Sono piuttosto il prodotto dei giudizi, delle rappresentazioni reciproche e delle loro interazioni.

Il percorso che ha portato l’Iran ad essere oggi un’entità statale oggettivamente problematica (che finanzia gruppi terroristici, che minaccia i suoi vicini) è in gran parte il frutto di un calcolo gravemente errato della controparte. Degli Stati Uniti in particolare, che hanno sistematicamente ignorato ogni segnale di apertura del regime iraniano (Khatami, a inizio 2000s). Il principale tavolo negoziale con l’Iran, l’Accordo sul Nucleare, è stato fatto saltare fragorosamente dall’amministrazione Trump, e senza una valida ragione. La comunità internazionale, con Teheran, si è dimostrata particolarmente incapace nel reintrodurla davvero entro il forum globale.

L’errore occidentale

La conseguenza è stata ovvia: l’Iran ha continuato a tenere un comportamento border line e non si è mai conformata unilateralmente alle norme occidentali. I suoi “comportamenti devianti” si sono ossificati lungo gli anni e oggi il regime è appieno l’incarnazione di tutte le sue innumerevoli contraddizioni. Perché? Proprio per i fatti del 1979 e del decennio che è seguito. Un processo di consolidamento istituzionale lento per cui è stato necessario un iniziale isolazionismo, una retorica dei vertici fortemente antioccidentale (gli USA come “il Grande Satana”, per usare le parole di Khomeini) e la guerra con l’Iraq hanno avviato la neonata Repubblica Iraniana lungo un percorso da cui si è discostata solo a fatica, e mai del tutto. E nel cui discostamento non è mai stata aiutata dalle grandi potenze del mondo libero.

Purtroppo, il 2020 ha segnato un grave peggioramento della retorica anti-iraniana a livello globale, e ha negato ogni possibile sviluppo lungo la via sopracitata. Il comportamento aggressivo e spregiudicato della triade USA-Israele-Arabia Saudita, pur a prima vista efficace, va contro i loro stessi interessi di lungo periodo. Un mondo incapace di “recuperare l’Iran” è un mondo che sta fallendo un suo obiettivo fondamentale.

Matteo Suardi
Matteo Suardi
Matteo Suardi, oltrepadano di nascita e di spirito, classe 1997. Studio Scienze internazionali all'Università di Torino, profilo Middle East and North Africa. Fiero appassionato di Medio Oriente, multilateralismo e studio delle religioni, scrivo per Sistema Critico nella sezione Politica. Die hard fan dell'ONU, unica cosa al mondo che mi emoziona più di Roger Federer.

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