venerdì, 19 Aprile 2024

Vaccini, interessi e necessità

“Per fermare la pandemia qui, dobbiamo fermarla dappertutto” ha dichiarato il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ad un summit virtuale sul COVID-19. Un’affermazione che sembrerebbe aver captato le avvertenze dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ripetute da inizio pandemia e riassunte nello slogan presente nel loro sito: “Con una pandemia in rapido movimento, nessuno è al sicuro finché tutti siamo sicuri”.
Insomma, come dichiarato dal Direttore dell’OMS, è necessario vaccinare l’intera popolazione mondiale (o una determinata percentuale) per far sì che il virus smetta di circolare.
Più il virus circola, infatti, più è probabile che nuove varianti nascano, mettendo a rischio l’efficacia dei vaccini fin qua elaborati e somministrati. È, quindi, nell’interesse di tutti distribuire i vaccini anche agli Stati meno sviluppati, non in grado di produrne di propri o di comprare quelli in commercio .
Tale necessità, però, si scontra con difficoltà politiche e tecniche.

La competizione ha vinto sulla cooperazione

A giugno dell’anno scorso, Peter Marks, officiale della Food and Drug Administration degli Stati Uniti e responsabile della fase iniziale dello sviluppo dei vaccini, paragonò la distribuzione dei vaccini alle maschere dell’ossigeno che escono in caso di caduta di un aereo. “Prima la metti a te, poi aiuti gli altri a mettersela”.
Il problema di questo paragone è che le maschere dell’ossigeno non cadono solo in prima classe, mentre il vaccino, come abbiamo visto, è arrivato quasi esclusivamente ai paesi più ricchi.

Questo ‘prima io, poi te’ approccio alla distribuzione, o ‘nazionalismo vaccinale’, ha portato ad una vera e propria corsa agli armamenti (di cui abbiamo parlato in un nostro altro articolo). Ciò che però ha disincentivato maggiormente una distribuzione globale del vaccino è stata la corsa agli approvvigionamenti che è susseguita. Nel giugno dell’anno scorso Italia, Francia, Germania e Olanda si sono unite nella Inclusive Vaccine Alliance per avere più potere contrattuale con le case farmaceutiche e ottenere più dosi il prima possibile. Quando i primi vaccini sono cominciati ad essere distribuiti, l’Unione Europea ha accusato la Gran Bretagna di aver siglato contratti ingiusti con le cause farmaceutiche. Qualche settimana più tardi è poi arrivata la minaccia di un blocco delle esportazioni di vaccini dell’Astra-Zeneca dall’Olanda verso, appunto, la Gran Bretagna. L’inverno scorso, invece, c’è stato il blocco di 250 mila dosi di vaccino dall’Italia all’Australia.

Il problema di questo ‘nazionalismo vaccinale’, che ha portato alla vittoria della competizione sulla cooperazione, si basa su un problema strutturale: la sicurezza rimane sicurezza nazionale, con buona pace dei ‘post-westaliani’.

La sicurezza di chi?

Questo in fondo è il dibattito alla base dei grandi problemi che ci troviamo ad affrontare ora e nel futuro.
Come affrontare problemi mondiali che prescindono dai confini nazionali? Come proteggersi da minacce che hanno origine dall’altra parte del mondo e che possono colpirci in diversi modi e forme? Per minacce come il cambiamento climatico, pandemie e terrorismo la sicurezza nazionale sembra ormai diventata obsoleta. Eppure lo Stato è ancora il primo (se non unico) contesto di elaborazione di strategie di sicurezza.

In risposta alla pandemia, i governi hanno quindi dato precedenza alla loro popolazione. E in una situazione in cui il numero di vaccini disponibili è limitato, l’acquisto degli stessi diventa un gioco a somma zero (se io li ottengo, tu li perdi, e viceversa). Una condizione che porta inevitabilmente allo scontro, anche tra vecchi alleati, come visto precedentemente. Ma come dar torto ai vari governi nazionali? In fondo, in un momento in cui i tuoi cittadini sono obbligati a rimanere in casa e privati di importanti libertà fondamentali, come si può spiegare la scelta di assegnare vaccini ad altri Stati perché più poveri? Come spiegare che “nessuno è al sicuro finché tutti siamo sicuri”? Ogni governo guarda la propria politica domestica, in ottica anche elettorale.

Il ruolo dell’OMS

Serve quindi un incentivo alla cooperazione e un’autorità sovranazionale che liberi da tali responsabilità i governi nazionali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe potuto giocarsi questo ruolo, anche se è ben lontana da potersi definire un’autorità sovranazionale. Infatti, l’autorevolezza di un’organizzazione internazionale e la sua capacità di incidere con una risposta globale dipendono dagli Stati che la compongono.

Sono gli Stati che danno autorità ad un’organizzazione riconoscendone le competenze su determinati temi. Nel caso dell’OMS si tratterebbero di temi di sicurezza sanitaria, che passerebbero da una loro dimensione nazionale ad una internazionale. Come detto, però, la sicurezza è ancora legata a strategie nazionali, e difficilmente questa prospettiva stato-centrica può essere risolta in breve tempo.

Per sviare a tale problema, la grave crisi pandemica poteva spingere gli Stati a cooperare. L’OMS sarebbe stata la sede perfetta per veicolare gli sforzi dei vari Stati, aumentando perciò la capacità dell’organizzazione nel programmare interventi corali volti ad una vaccinazione globale. Ma la pandemia non ha sortito gli stessi effetti dell’11/09 in tema di solidarietà internazionale. Al contrario, la pandemia sembra aver aumentato le tensioni tra Stati, i quali hanno optato per politiche estere aggressive.

Nelle relazioni internazionali il realismo ha vinto sul liberalismo

La competizione che prevale sulla cooperazione è ben riassumibile con il deteriorarsi dei rapporti tra Stati Uniti e Cina nell’ultimo anno e mezzo. Attraverso l’utilizzo dei media, Donald Trump, nella sua continua ricerca di un capro espiatorio, ha voluto creare il ritratto di una Cina responsabile della diffusione del ‘China-Virus’, come da lui ripetutamente definito. D’altro canto Xi Jinping ha utilizzato i media per minare la credibilità degli Stati Uniti come alleato affidabile e rispettoso delle norme internazionali.
Le tensioni non sono state solo a parole.
La Cina ha approfittato del momento di distrazione causato dalla pandemia per cambiare lo statuto legale di Hong Kong, aumentando il controllo politico cinese. Non sono mancate le tensioni sullo Stretto di Taiwan, così come nel Mare Cinese meridionale, per il quale la Cina vuole creare un ‘nuovo sistema’ di ripartizione con l’obbiettivo di mettere mano sulle enormi risorse naturali presenti nel fondo marino. È proprio in ottica di contenimento cinese via mare che va collocata la nuova alleanza degli Stati Uniti di Joe Biden con la Gran Bretagna e l’Australia. Questi Stati, insieme al Giappone e al Sud Corea, saranno il principale asse anti-cinese nelle strategie estere americane.

L’aumento delle tensioni internazionali

Il faccia a faccia tra le due grandi potenze Stati Uniti-Cina è soltanto una parte dell’aumento di tensioni nel contesto internazionale. La Russia ha aumentato le sue provocazioni in Alaska attraverso esercitazioni militari, mentre continua le sue manovre in Ucraina e in Bielorussia. La Corea del Nord l’anno scorso ha aumentato le sue provocazioni nel nord-est asiatico con test missilistici. La Turchia è intervenuta in Libia, mentre Israele continua i suoi piani per annettere parte della Cisgiordania. E la lista va avanti.

In this file photo taken on Wed. June 24, 2020, Russian RS-24 Yars  ballistic missiles
Missili balistici russi RS-24 Yars nella Piazza Rossa di Mosca, Russia, 24 giugno 2020. Foto di Alexander Zemlianichenko

Dall’inizio di quest’anno, invece, un’altra arma diplomatica è entrata in gioco: i vaccini. Attraverso concessioni privilegiate, Stati come Russia, Cina, ma anche Stati Uniti, stanno cercando di rafforzare alleanze già consolidate e di crearne altre, in modo da alterare, o mantenere, l’equilibrio internazionale. Gli Stati sembrano aver visto la pandemia come un’opportunità per ottenere obiettivi di politica estere e per cambiare lo status quo internazionale. E tutto basandosi, sostanzialmente, su una scommessa comune: io uscirò prima dalla crisi sanitaria e la mia ripresa economica sarà più veloce di quella degli altri. O, in altre parole, gli altri saranno più danneggiati di me.

Tutto ciò non ha fatto altro che rendere inefficaci quei pochi progetti di cooperazione internazionale nati, come il COVAX, programma internazionale volto all’acquisto e alla distribuzione del vaccino nelle parti più povere del mondo.

COVAX: bella idea, ma no grazie

COVAX è stato il tentativo di cooperazione internazionale più degno di nota nel combattere la pandemia nel mondo. Fondato dall’OMS, Bill & Melinda Gates Foundation, UNICEF e la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), COVAX ha come obiettivo quello di rendere disponibili fino a due miliardi di dosi di vaccini anti-COVID agli Stati che vi parteciperanno entro la fine del 2021. Il progetto però ha avuto notevoli difficoltà nell’ottenere i vaccini necessari.
L’approccio ‘prima io, poi tu’ avuto dagli Stati ha inevitabilmente reso impossibile per COVAX ottenere i vaccini. Le case farmaceutiche non riuscivano a mantenere una produzione sufficiente rispetto alla domanda, trovando difficoltà a rispettare i contratti già siglati con alcuni Paesi. Il nazionalismo vaccinale ha quindi ostacolato, e ostacola tutt’ora, l’impegno del progetto di ottenere due miliardi di dosi entro la fine dell’anno. Gli Stati sviluppati stanno per somministrare la terza dose, mentre i Paesi sottosviluppati hanno il 2% di popolazione vaccinata con prima dose. Il risultato è che fino al 24 agosto COVAX ha distribuito solo 44 milioni di dosi.

I primi segni confortanti arrivano dalle dichiarazioni di Joe Biden del 21 settembre scorso nell’occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato che saranno donate 500 milioni di dosi ai paesi più poveri grazie ad un accordo raggiunto con Pfizer-BioNTech.

Il Presidente Joe Biden durante il suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 21 settembre 2021. Foto di Brendan Smialowski.

Problemi e fallimenti

Sono tre, però, le problematiche che vale la pena evidenziare. Innanzitutto, la tempestività di tale decisione. Nonostante il numero sia consistente, non è sufficiente per raggiungere il traguardo delle 2 miliardi di dosi promesse a fine anno da COVAX, al netto del fatto che non si sa ancora quando i vaccini promessi dagli USA saranno disponibili. Il secondo problema è che non si è andati oltre l’ottica del dono con, ad esempio, la revoca dei libretti per la produzione dei vaccini. La terza problematica, invece, è che la consegna dei vaccini da parte degli Stati Uniti arriva con una condizione: i soldi spesi per l’acquisto delle dosi verranno presi dai fondi previsti per l’acquisto delle attrezzature necessarie per la loro stessa distribuzione. Questo ultimo punto rientra nei problemi tecnici del progetto COVAX, piuttosto che politici.

COVAX è stato, quindi, accusato di essere un fallimento per la sua incapacità di distribuire i vaccini in suo possesso. Nel giugno scorso, 100 mila dosi di vaccini Pfizer sono arrivati nella Repubblica del Ciad, Stato dell’Africa centrale. Cinque settimane dopo il Ministro della Salute ciadiano ha dichiarato che 94 mila dosi non erano state utilizzate. Storia simile nel Benin, in Africa occidentale, in cui 110 mila dosi sono scadute a causa della lentezza della campagna di vaccinazione (237 dosi al giorno). A luglio, almeno in altri nove Paesi i vaccini erano a rischio scadenza a causa delle difficoltà nella somministrazione.
Questo evidenzia un altro problema spesso ignorato nel piano di vaccinazione globale: il trasporto, la conservazione e la distribuzione delle fiale vaccinali. La maggior parte dei vaccini richiedono di essere conservati ad una temperatura tra i -25 e i -15 gradi. A causa delle temperature del continente africano e dalla scarsità di infrastrutture adeguate, le difficoltà si moltiplicano.

È nei nostri interessi… ah, no.

“Per fermare la pandemia qui, dobbiamo fermarla dappertutto”. Questa dichiarazione di Joe Biden nasconde quella che è la realtà dei fatti: prima si sono messi le maschere d’ossigeno loro, ora stanno pensando di aiutare gli altri. Questa è stata, d’altronde, la linea politica di tutti gli Stati, nonostante in continui richiami dell’OMS sulla necessità di un piano vaccinale globale per debellare una pandemia che ci accompagnerà per anni.

Sarebbe stato possibile un altro approccio? Ma soprattutto, l’avremmo accettato? È normale pensare ai propri interessi quando si hanno parenti e amici che muoiono per la pandemia e le nostre libertà vengono limitate. È più difficile capire, o accettare, che i “propri interessi” combaciano con il fatto che tutti siano vaccinati, e non soltanto i nostri vicini. Perché, come detto dal Direttore Generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus, “il nazionalismo vaccinale non è solo moralmente indifendibile. È epidemiologicamente auto-distruttivo e clinicamente controproducente”.
Il COVID-19, potendo circolare più facilmente in Paesi con un basso tasso di vaccinazione, ha più probabilità di mutare in nuove varianti. E la nascita di una variante resistente ai nostri vaccini ci farebbe ripiombare nuovamente in crisi.

Carlo Sapienza
Carlo Sapienza
Classe 1998. Nato nella bassa modenese, nel paesino di San Felice sul Panaro, dove la nebbia mi ha insegnato ad aguzzare gli occhi, e la pianura a spaziare con la mente. Qualità che mi servono nei miei studi di sicurezza internazionale.

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