Invelle: da nessuna parte ed in ogni luogo
Dalla china di Simone Massi, il più grande autore di cinema d’animazione poetico italiano (a testimonianza della virtuosità: due candidature al David di Donatello per il miglior cortometraggio e una vittoria ottenuta nel 2012 con l’opera “Dell’ammazzare il maiale”, tre Nastri d’argento) prende forma un viaggio onirico di sussurri e grida.
Invelle racconta la resistenza, l’odore della polvere da sparo, i rumori della campagna notturna e quel sangue carmino, unica nota di colore nel dominio del bianco e nero. La pellicola è l’esordio al lungometraggio di animazione di Massi, vincitore del Premio “Carlo Lizzani” nella sezione Orizzonti all’80ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2023), e vanta quarantamila fotogrammi, disegnati a mano da un notevole gruppo di artisti.
Dove sei stato?
Massi, fortemente legato alla sua madrepatria, un rapsodo di terra, ci dipinge un canto popolare passato dalla bocca dei nonni a quella dei nipoti. Si narrarono le piccole realtà marchigiane contadine (il film è interamente recitato nel dialetto del pergolese) nelle loro forme più ancestrali, tra gli occhi lucidi del bestiame e il ricordo di una devastazione militare che non ha risparmiato nessuno. I pochi lampi di colore sono una rottura del realismo di una pellicola che ti ingloba nella sua veridicità, nel suo dolore che si sprigiona in una costante metamorfosi, rovesciandosi da un fotogramma all’altro.
Tre sono le vicende che si incastrano seguendo lo sguardo di tre bambini: Zelinda, Assunta e Icaro. Le loro vite immerse nella civiltà contadina sono il riflesso della condizione sociale di un Italia in mutamento, dove l’infanzia lascia ben presto il posto ad una consapevolezza precocemente adulta. Vite spaccate tra l’antico retaggio della terra e la nascente industrializzazione. Invelle, termine dialettale che titola la pellicola e che in senso stretto significa “in nessun luogo”, spiega Simone Massi, ha un origini ben più distanti e nobili, a rimarcare la necessità della conservazione di una memoria che il film dispiega davanti allo spettatore nella sua veste più terribilmente cruda.
In occasione della presentazione della pellicola presso il cinema Politeama di Fano, Simone Massi ci ha molto cortesemente offerto la propria disponibilità per una breve intervista.
Salve Simone, innanzitutto Invelle è il suo esordio al lungometraggio. È stata una scelta dettata dal progetto o più ad una sua volontà di esplorare una narrazione più estesa? Quali direbbe siano state le sfide del lungometraggio?
«Ho realizzato cortometraggi per tre decenni, conosco talmente bene la forma che sono arrivato a perdere un po’ di stimoli. Il lungometraggio, invece, rappresentava un terreno nuovo e inesplorato. In altre parole era tempo di provarci, di estendere il mio lavoro di ricerca. La sfida più difficile era quella di costruire un impianto narrativo diverso, che potesse tenere l’attenzione del pubblico non più per 8 minuti ma per 90. I personaggi dovevano avere un’identità, essere riconoscibili, parlare… tutte cose nuove, che non avevo mai affrontato prima. Inizialmente avevo un po’ di preoccupazioni, che si sono via-via dissolte per strada, lavorando e sbagliando.»
Ho trovato incredibilmente interessante l’uso del dialetto pergolese nel corrente contesto storico dove noto come le nuove generazioni fatichino a mantenere la memoria dialettale specie delle piccole realtà.
Da dove è nata questa volontà di portare avanti uno studio linguistico sul dialetto, che possiamo dire ha già trovato una prima espressione nel suo Abbecedario? Inoltre, qual è stato il processo di ricerca sulla lingua che ha portato alla stesura del testo di Invelle?
«All’inizio era una specie di gioco: scrivevo su dei fogli volanti le parole e le espressioni dialettali più originali e divertenti. Col passare del tempo ho capito invece che il dialetto era l’espressione di una cultura antichissima, derivata dal volgare, e che purtroppo stava scomparendo. A quel punto è diventata una ricerca seria, serissima, una passione che mi prendeva tutto il tempo e le energie, che mi impediva perfino di dormire la notte. Un lavoro in perdita ma sono contento di aver salvato tutto quello che potevo.
Teoricamente doveva essere una cosa sganciata dal film che stavo scrivendo ma nel momento in cui il nuovo produttore mi ha dato carta bianca dal ho riscritto tutti i dialoghi in dialetto, cercando di mostrare il cambiamento dello stesso nel corso degli anni. Nella prima parte infatti il dialetto è quello arcaico, più greve e simile all’eugubino, nella seconda e terza parte si contamina con l’italiano e si addolcisce, a causa dell’istruzione scolastica e della televisione.»
Il film racconta di realtà percepite come marginali. Per essere un narratore di tali scenari credo sia necessario viverle. Quanto Invelle racconta di lei stesso e quanto ritiene necessario nel nostro contesto politico-sociale parlare di memoria?
«Invelle poggia su una memoria che al tempo stesso è personale e collettiva, un insieme di ricordi e di storie, in parte autobiografiche e in parte no.
La memoria è una funzione vitale, l’uomo che ne è privo non è capace di fare un passo in avanti, di riconoscere la madre, di portarsi il cibo alla bocca.»
A livello tecnico il tratto da lei utilizzato crea un senso di inquietudine, di scenari onirici in costante trasfigurazione, come è giunto a questo risultato?
«Sperimentando per anni, finché non sono riuscito a trovare questa tecnica, costituita da pastelli ad olio graffiati con strumenti incisori, che mi permette di lavorare in sottrazione, uno scavare nel nero per tirar fuori la luce.»
In ultimo vorrei chiederle quale elemento del processo creativo di Invelle l’ha più emozionata?
«Probabilmente la parte relativa ai dialoghi, la scrittura degli stessi, la recitazione dei bambini.».