lunedì, 09 Dicembre 2024

La lente umana di Sebastião Salgado

Sebastião Salgado è considerato uno dei più grandi fotografi del mondo. Le sue sono fotografie crude ed intense, che diventano però un mezzo per documentare e denunciare la condizione umana di alcune aree del mondo.

La preoccupazione per gli Indios dell’Amazzonia

Sebastião Salgado è da più di trent’anni un fotografo impegnato a dare voce a chi voce il più delle volte non ha.
L’ultima sua battaglia in ordine di tempo si inserisce all’interno del conflitto nato in Brasile circa l’atteggiamento assunto dal presidente Jair Bolsonaro nei confronti dell’epidemia.
La preoccupazione di Salgado riguarda soprattutto le popolazioni indigene dell’Amazzonia. Bolsonaro infatti ha rimosso tutte le misure che proteggevano gli ingressi al territorio indigeno e ha indebolito il sistema di protezione per queste comunità, stabilito anche nella costituzione brasiliana. A causa dell’epidemia, i fondi destinati all’IBAMA, l’Istituto brasiliano dell’Ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, sono stati tagliati e l’agenzia ha smesso di funzionare. A causa di ciò, tagliaboschi, allevatori di bestiame e minatori sono ritornati in queste zone, ponendole così a rischio contagio.

Gli indios sono a rischio. Il Covid-19 è una minaccia contro la quale questa popolazione non è attrezzata e che rischia di decimarla. I dati al 16 agosto riferiscono già 678 morti.

Indios fotografati da Sebastião Salgado, in Genesis

Ad inizio maggio Salgado, insieme a sua moglie Lélia Wanick, attraverso un video-denuncia ha lanciato un appello al governo, al congresso e alla corte suprema del Brasile. Lo scopo? Spingerli ad agire rapidamente per evitare il contagio delle popolazioni native, già fortemente provate dalle conseguenze degli incendi e dell’inquinamento dei fiumi. Il suo appello, raccolto da tanti nel mondo, è una drammatica denuncia del possibile genocidio dei popoli indigeni dell’Amazzonia a causa delle politiche anti-ambientaliste messe in atto dal presidente brasiliano (si parla di un genocidio simile a quello provocato cinquecento anni fa dai conquistadores europei).

Come nell’Inferno di Dante

Non è la prima volta che Sebastião Salgado si impegna per documentare e far conoscere le condizioni di vita delle popolazioni amazzoniche e della realtà brasiliana in generale.
Risale al 1986 una delle sue raccolte fotografiche più famose, ambientata proprio in Brasile, nella miniera d’oro della Serra Pelada.
Attraverso il suo obiettivo, Salgado ha ritratto migliaia di persone mentre si arrampicano su instabili scale a pioli per uscire da un’enorme cava, portando sulle spalle sacchi di fango dal peso di 60 kg che potrebbero contenere tracce d’oro. Così, salendo e scendendo decine di volte al giorno, tutti i giorni. La foto, che dalla posizione da cui è stata scattata sembra rappresentare un girone dell’Inferno dantesco, documenta un abuso di diritti umani senza precedenti che sarebbe passato pressoché inosservato.


Questo è solo uno dei reportage dal Brasile, dove Salgado si è battuto e continua a battersi, impressionato dal degrado umano, civile e sociale di queste genti. Le fotografie dalla Serra Pelada sono una metafora della condizione vissute in tutto il Sud America dalle classi sociali più povere.

«Quando fotografo io respiro la fatica dell’uomo, i suoi ritmi, le sue angosce. Ma anche le sue speranze. Le immagini possono risvegliare le coscienze come una premessa necessaria all’avvio di qualche azione. Un’immagine è come un appello a fare qualcosa, non soltanto a sentirsi turbati o indignati. La foto dice: “Basta! Intervenite, agite!”».

La fotografia come progetto di vita

Sebastião Salgado nacque nel 1944, in un piccolo centro del Brasile occidentale. Formatosi come economista, agli inizi degli anni ‘70, mentre lavorava per l’Organizzazione Mondiale del Caffè, iniziò ad interessarsi alla fotografia. Da passione amatoriale, in breve tempo divenne una vocazione e un progetto di vita. Salgado trovò subito un proprio campo di interesse: dimostrare come i cambiamenti ambientali, economici e politici condizionano la vita dell’essere umano.
Questo lo ha portato a documentare conflitti (a segnarlo profondamente fu, a metà degli anni ’90, la crudezza delle scene viste durante il genocidio in Ruanda) e le condizioni precarie del lavoro e della vita, con una dedizione e passione purissime.

Sebastião Salgado in Ruanda, 1994

Lo testimoniano le sue campagne fotografiche che durano anni.
Altre Americhe” (1977-84) racconta delle culture contadine e indiane dell’America Latina, “Sahel” (1984-85) documenta gli esodi di massa in Chad ed Etiopia seguiti ai conflitti armati e alle carestie.
La mano dell’uomo” è un colossale progetto sull’uomo e sul lavoro, realizzato in 6 anni (1986-92) attraverso 26 paesi in tutto il mondo. Un omaggio al lavoro manuale in un’epoca invasa dalla tecnologia e dall’informatica.
Contemporaneamente Salgado spostò la sua attenzione sulle tematiche ambientali, iniziando a lavorare su “Genesis”, un omaggio al Pianeta in cui sono rappresentati animali e paesaggi non ancora contaminati dal progresso umano.

La fotografia umana

Sebastião Salgado da fotografo rigoroso qual è, fotografa esclusivamente in bianco e nero, con la precisa volontà di non distogliere con il colore l’emozione dall’immagine in sé.
È forse proprio questo che lo rende un fotografo speciale. Un fotografo il cui sguardo si posa su un’umanità che soffre, uno sguardo che ha desiderio di raccontare, di testimoniare, di attirare l’attenzione verso chi è dimenticato.

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Caterina Costa
Caterina Costa
Bellunese a Bologna, con una passione per l’arte nata tra i banchi di scuola e proseguita tra quelli universitari. Nata nel 1996, sono laureata in Arti Visive. Sono in Sistema Critico da poco più di tre anni, non più come scrittrice ma nel dietro le quinte

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