venerdì, 29 Marzo 2024

L’io, lo straniero e l’altro

In Germania, nel 19° secolo, forte a livello filosofico è la Scuola Idealista, della quale Fichte si pone come uno dei capostipiti (assieme ad altri pesi massimi, come
Hegel per esempio…). Lui poneva la persona, l’individuo, o meglio LA CAPACITA’ RAZIONALE INTRINSECA ALL’ESSERE UMANA COME IO, come essere se non vivente almeno esistente in quanto percepisce lui stesso la sua esistenza, mentre tende a categorizzare ed a “combattere” tutto ciò che risiede al di fuori dell’io stesso.
E’ una visione fortemente bipolare. Due sono i poli e non si pongono in ruolo di vicendevole scambio, il loro è un rapporto COMPETITIVO e NON COLLABORATIVO. In tale ragionamento vi sono solo la tesi e l’antitesi, mentre manca una sintesi che provveda a conciliare le due istanze contrapposte, dimostrando l’unitarietà dei contrari. E anche se la celeberrima frase “La notte in cui tutte le vacche sono nere” venne usata da Hegel per criticare Shelling, nell’ambito di questo articolo potremmo tranquillamente trasporre ciò alla teoria Fichtiana.
Fichte pone così le basi (già comunemente esistenti anche in ambito filosofico) per due nuove categorie concettuali, l’Identità (il riconoscersi in qualcosa al cui
interno siamo tutti uguali) e la Diversità.
Provocatoriamente pensiamo ad un facile, ma in parte anche “banale”, esempio storico, il nazismo.
Il regime nazista riconosceva l’identità della razza ariana, mentre al di fuori vi era un “melting-pot” di etnie razziali e non, tra cui ebrei, slavi, comunisti, omosessuali e disabili, i quali però non presentavano alcun connotato tra loro comune, se non l’impossibilità di ricollegarsi all’identità della razza stessa.
Tale esempio, per ragioni note a tutti, è ovviamente ingigantito, però se noi vogliamo osservare un fenomeno imprescindibile dobbiamo ricorrere al metodo degli indici, ossia a quella metodologia che si muove a partire dall’osservazione della manifestazione del “fenomeno esterno” per comprenderne la ragione, ed infatti, seppur in dimensioni ridotte, a ciò si assiste anche oggi, pensiamo agli scontri tra Ultras, a quelli tra sostenitori di due orientamenti politici avversari (fascisti ed antifà), ma anche alle risse che si generano dall’odio xenofobico.
Il fattore identitario è un elemento fondamentale alla base dell’essere umano, fondamentale poiché l’uomo per poter vivere (vivere e non esistere) deve dare un senso alla propria vita, senso che spesso ritrova attraverso l’identità. Tuttavia, date le disfunzioni insite in tale sistema, forse, pur ottenendo risultati simili o se preferite analoghi sul piano degli effetti, dovremmo rivedere il paradigma filosofico-giuridico.
Ragionare mediante il modello dicotomico Identità-Diversità è sbagliato e potenzialmente pericoloso sul piano sociale, poiché dovremmo abbracciare altri valori e altre categorie per essere umani. Ecco che Francois Julien elabora la teoria dell’alterità per cercare di oltrepassare questo residuo storico e filosofico.
Mentre l’identità suggerisce un sostanziale immobilismo (come ad esempio dire: “io sono io, tu sei tu e perciò diverso”), l’alterità suggerisce un percorso alternativo che permette di andare oltre la tesi e l’antitesi, permettendo anche una sintesi.
Una facile semplificazione può essere la figura dello straniero, che è la perfetta rappresentazione dell’altro in quanto intuitivamente e non immediatamente riconducibile a noi, magari africano giunto in una piccola comunità dell’appennino, della quale non conosce né la cultura, né la lingua, ma neanche gli usi e costumi.
La comunità tendenzialmente è portata, se non ad escluderlo, quanto meno a diffidare di lui, in quanto sconosciuto e potenziale portatore di pericoli e cambiamenti in grado di stravolgere l’equilibrio comunitario o le convinzioni culturali.
Tale risposta è fisiologica, è la medesima sia all’interno dell’identità, che dell’alterità, ma, mentre la prima porta ad una “esclusione” quasi assoluta dello straniero
dalla vita sociale, l’alterità serve a costruire un dialogo costruttivo.
Con lo straniero ciò è evidente, ma noi dovremmo recuperare la concezione di Fichte, dove l’io è unico, mentre tutto il resto è Non io, dove il Non
io e dunque lo straniero non è solo lo straniero stesso, ma tutto ciò che esula da noi, anche se al posto di “non io” o “diverso” dovremmo parlare “dell’altro”.
Cercando di unire questi due approcci, l’altro è tutto il resto del mondo con il quale ogni giorno dialoghiamo anche in forma tacita, l’altro è lo straniero, il nostro amico,
il vicino di casa, il nostro cane, i nostri genitori, ma anche le opere d’arte (canzoni, quadri, edifici) e la natura in quanto non riconducibili a noi.
A prescindere dall’altro concreto (per esempio, a seconda che interlocutore sia una persona fisica, un animale, opera d’arte etc), la metodologia per costruire l’alterità
è la stessa. Dobbiamo abbandonare i costrutti teorici e razionali insiti all’essere umano, cercando di osservarlo se non per quel che è (in quanto difficile se non impossibile da comprendere, un po’ come nella scissione Kantiana tra noumeno e fenomeno) per quello che sembra essere.
Il più grande errore sarebbe osservare l’altro per poi cercare di ricondurlo alle nostre categorie, studiarlo per come a noi è stato insegnato, va studiato così per
come è posto, indagandone il suo essere in quanto tale e non il suo non essere rapportato a noi.
Banalmente, così come noi dovremmo studiare le lingue straniere in quanto tali, spesso nel parlarle o nel studiarle facciamo l’errore di pensare prima alle frasi in italiano per poi tradurle nella lingua desiderata. Ciò è però un errore, sia nell’esempio e tanto più in questa teoria.
Questo è un esercizio che possiamo fare ogni giorno e l’allenamento migliore è quello che si fa con le opere d’arte, specialmente con la musica, che non a caso  Schopenauer considerava il “mezzo per estraniarsi”. È infatti attraverso l’arte che noi spesso scopriamo cose preesistenti, ma prima invisibili ai nostri occhi, come una
bella melodia, o una frase che sentiamo nostra, o ancora un sentimento insito in ciò che avevamo precedentemente valutato e che non eravamo riusciti a comprendere nella sua interezza.
Chi non ha mai sentito una canzone la prima volta, magari considerandola brutta o comunque non conforme ai suoi canoni musicali, per poi ricredersi? Ciò è dovuto ad una diversa valutazione ed interpretazione che noi diamo alla canzone, le quali costituiscono un motore per l’evoluzione della nostra evoluzione personale.
Analogamente alla musica, anche i rapporti umani si fondano su questo costrutto: quante volte qualcuno ci stava antipatico a pelle per poi diventare il nostro migliore amico, se non addirittura fidanzato?
Tutto ciò è dovuto all’alterità, al fatto di avere dei pregiudizi, ed è per questo motivo che dobbiamo mettere da parte la nostra presunzione e la nostra superbia, a causa di cui pensiamo già di conoscere tutto. Dobbiamo abbandonare il nostro bagaglio culturale, poiché un’alterità così concepita permette di conoscere il mondo, ma conoscere il mondo avrà come esito finale il riconoscere come Altro anche noi stessi.

Roberto Zaffini

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