Nella scorsa puntata ci siamo occupati di un veloce ripasso dei concetti fondamentali della politica monetaria europea: ora ci sono le premesse per parlare di Eurobond. Per riassumere, ci basta ricordare che quando i paesi membri hanno deciso l’assetto legislativo dell’Unione hanno dovuto negoziare un compromesso.
È importante sottolineare questo punto, perché ogni accordo è politico e deve cercare di accontentare tutti. Possiamo discutere quanto vogliamo sui dettagli, ma l’alternativa a questo approccio pare sia solo l’anarchia.
I paesi membri, quindi, hanno dovuto accordarsi su certi punti fermi, che sono finiti nei trattati. Uno di questi è il rigore fiscale: il Patto di Stabilità e Crescita, ampliato e trasformato nel Fiscal Compact nel 2013, è in vigore dal 1998. Gli obiettivi sul debito (il famoso 3% del deficit e l’obiettivo di avere un rapporto debito/PIL inferiore al 60% nel medio periodo) sono stati delineati nel 1992 nel Trattato di Maastricht, noto anche come Trattato sull’Unione Europea (TUE).
Perché l’austerity?
Arriviamo al nocciolo della questione: perché tutto questo rigore, le riforme, l’austerità? Lo ha spiegato bene Andrea Giuricin in un breve post su Facebook l’altro giorno:
In altre parole, generalmente i paesi del nord (che sul debito sono più diligenti di noi) non vogliono sobbarcarsi il costo del debito di altri paesi, e cioè delle proposte politiche demagogiche e inefficienti. Degli sprechi, se preferite. Non vi ricorda qualcosa? Ogni volta mi torna in mente la polemica del Nord-contro-Sud in Italia e in particolare le campagne referendarie per l’autonomia del 2018.
Seguire la campagna elettorale in Lombardia fu generalmente noioso, perché tutti i partiti principali erano a favore del sì. A tirare su il morale, però, fu come alcuni esponenti sostenessero che 1. avremmo trattenuto 26 miliardi di residuo fiscale sul territorio e soprattutto che 2. in questo modo avremmo fatto anche un favore al Sud, perché riducendo loro i contributi si sarebbero dovuti inventare qualcosa di meglio.
Ecco, questo si avvicina a ciò che pensano paesi come l’Olanda e la Germania – non in toto, ovviamente. Così come non tutto il Nord Italia pensa che non dovremmo versare contributi per il Sud. Ma la situazione è tale per cui nessun politico vorrebbe e potrebbe mai fare campagna elettorale sostenendo il contrario.
Il problema non è tanto che “i politici sono corrotti” e non proporrebbero mai un programma simile: è che verrebbero sbranati dalle opposizioni, che distorcerebbero il messaggio e accuserebbero di tradire la nazione, buttando via i soldi dei cittadini. Vi ricorda qualcosa?
E gli Eurobond?
Chiariamoci: non è tutta colpa dei paesi europei più rigorosi, che per certi versi hanno ragione sugli sprechi. Tuttavia, manca anche una vera alleanza tra i paesi che beneficerebbero da un passo avanti verso un’unione fiscale più completa: mancano leader politici in grado di promuovere una sostanziale integrazione, con progetti credibili e piani lungimiranti.
Il problema è che l’Unione Europea ha degli organi decisionali dove, per volontà di chi la istituì, dominano le singole sovranità nazionali. Lo si è fatto per lo stesso motivo di cui sopra. È un meccanismo che vuole essere giusto, perché non si vuole sminuire l’importanza politica degli interessi e del bene di nessun paese, e cioè dei suoi cittadini. Ma l’ingrandimento dell’Unione, probabilmente, ha creato tanti blocchi in contrasto tra loro. La frammentazione è aumentata, rallentando i processi decisionali, che mai come ora avrebbero bisogno di escogitare risposte immediate e coraggiose.
Gli Eurobond sarebbero un passo in questa direzione: si tratterebbe di titoli di stato emessi dall’UE per finanziare una parte del debito di ogni paese. Sia chiaro: i problemi non sono solo politici. Gli ostacoli agli Eurobond sono anche di natura tecnica: ad esempio, l’UE non dispone di entrate sufficienti per costituire un fondo di garanzia per quei titoli, ad esempio. La prima campagna da fare, infatti, sarebbe quella per aumentare i contributi all’UE – e cioè i soldi che ogni anno i paesi membri versano all’Unione. Non è una battaglia politicamente fattibile in nessun paese.
E poi, ancora, quanti Eurobond potrebbe emettere ogni paese? Perché è chiaro che sarebbero usati principalmente dai paesi del sud, che ne trarrebbero maggiore giovamento. Ciò porterebbe a due effetti: il fatto che i titoli di stato sovrani diventerebbero più costosi (il mercato preferirebbe i titoli europei, oggettivamente più sicuri). Inoltre, visto che sarebbero usati soprattutto dai paesi del sud, renderebbero effettivamente più costoso il finanziamento del debito per i paesi del nord, qualora decidessero di emettere debito attraverso gli Eurobond.
Allora che si fa?
A meno che la crisi non sarà così grave da richiedere misure ancora più imponenti di quelle già messe in atto, il ricorso agli Eurobond sembra estremamente improbabile. (Per favore, non chiamateli coronabond. Al massimo, come suggeriva Mario Monti, Buoni per la Salute Pubblica.) Già si prospetta una difficile impresa provare a innescare i finanziamenti del MES senza nessuna condizionalità per i paesi indebitati come l’Italia.
Ma forse potremmo non averne bisogno. La BCE ha annunciato un programma di acquisto di titoli praticamente illimitato, il PEPP. A ora ha stanziato 750 miliardi di euro fino alla fine dell’anno, precisando che i) non è detto che il programma finisca nel 2020, anzi: durerà fino alla fine della crisi della pandemia e ii) l’ammontare potrà salire (e lo farà). Questo va ad aggiungersi al quantative easing, per arrivare a un totale di circa mille miliardi di euro da qui a fine 2020.
L’artiglieria della BCE dovrebbe bastare per rendere il debito sostenibile. Non sarà una condizione sufficiente: dovranno anche impegnarsi i singoli paesi, annunciando misure adeguate e riducendo l’inutile conflittualità. Ne saremo in grado? Non abbiamo altra scelta: questa è l’Europa che abbiamo voluto. Un’Europa degli Stati Nazione, che non si può dare che piccole ambizioni e che affida alle singole sovranità la strada per un difficile e modesto compromesso.