venerdì, 29 Marzo 2024

Grunge: il ruggito dell’anima

Immaginatevi Seattle, siamo a cavallo tra gli anni 80 e gli anni 90. Pensate di fare una passeggiata tra le affollate vie di una tipica metropoli americana. Camminate, camminate, camminate sino ad arrivare in un piccolo locale di periferia. E’ un pub, un po’ trasandato, l’insegna al neon si accende e si spegne ad intermittenza. Curiosi decidete di entrare. Appena messo piede in quel posto potete percepire un paio di cose. Sicuramente tanta gente per essere un locale discretamente piccolo, puzza di fumo e alcol non può di certo mancare, ma sopratutto una strana musica, quasi un rumore assordante. Vi fate largo tra la folla cercando di scansare corpi sudaticci, persone moleste e con l’obiettivo di raggiungere il bancone. Seduti davanti a quel piccolo mobile di legno trovate tre tipi apparentemente loschi. Prima di avvicinarvi ulteriormente li squadrate ben bene. Capelli lunghi, abiti trasandati, sporchi, jeans strappati e camice di flanella a scacchi tipiche dei taglialegna locali. Insomma, nulla di buono all’apparenza, ma se vi dicessi che quelle tre strane figure con buone probabilità potrebbero essere Kurt Cobain, Eddie Vadder e Chris Cornell?

Questa forse è una delle fotografie migliori che possa fare per descrivere il fenomeno del Grunge.

Grunge, che parola strana, non è vero? No, se ve lo steste chiedendo non è una qualche strana onomatopea, tipo il suono che fanno le patatine quando vengono masticate. Non è nemmeno un’imprecazione, o meglio, in teoria no in pratica alle volte potrebbe essere anche utilizzata come tale. No, non è nulla di così complicato. E’ semplicemente musica. Ora, forse semplicemente è un po’ troppo riduttivo, anche musica effettivamente è troppo semplicistico. Il grunge è uno stile di vita, un’esigenza di esprimersi, uno status sociale. E’ quella musica che ti tartassa le orecchie ma che dona sollievo alla tua anima. E’ un qualcosa di profondo, nascosto tra le vie di periferia della grande Seattle e rinchiuso dentro ognuno di noi.

Gli artisti grunge sono un po’ i bohemiens della musica.

Esprimono quello che era all’epoca un disagio sociale, il sentirsi incompresi, la povertà delle periferie metropolitane, l’avvertire il mondo e la vita in maniera particolare. Avevano il bisogno di parlare, di urlare al mondo intero e diamine, lo hanno fatto, lo hanno fatto eccome. Quelle urla erano colme di sofferenza, di rabbia, dolore e tanta voglia di cambiare le cose. Era un urlo sofferto, primitivo, incontrollato, stonato e totale. Era l’urlo di chi si sentiva costantemente incompreso e l’incomprensione causa istinto alla provocazione, alla desacralizzazione di valori precostruiti. La musica dell’urlo, un urlo ribelle e fuori da tutto, un urlo che gridava libertà. Questo è il grunge, la realtà che ti viene schiaffata in faccia in maniera violenta e cruda, emozioni strazianti e sogni di chi vedeva nelle luci di periferia delle stelle guida.

Quelle sonorità così disturbanti erano una sorta di test da superare, il guscio dell’uovo.

Tra quel rumore assordante, violento e spregiudicato vi erano parole forti, toccanti e di un’intelligenza disumana. Disumana. Ecco, forse l’urlo più forte del grunge era proprio quello contro chi era, chi è disumano. Un urlo colmo di umanità, di passione e di vita. Un urlo che forse troppe volte è rimasto nascosto dietro a quel potente brusio musicale. Eppure la loro esigenza di richiamare la sensibilità umana, l’empatia, l’uguaglianza e il rispetto reciproco dovrebbe essere accolta da tutti. Oggi più che mai bisognerebbe riscoprire questa essenza, un urlo libero.

E’ vero, non saranno belli e profumati, ne tanto meno la classica rockstar standard però provate ad ascoltarli attentamente perché quel suono, quelle urla, quelle parole sono il ruggito dell’anima e vi assicuro che vi scuoterà nel profondo.

Sistema Critico
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