venerdì, 29 Marzo 2024

La carezza che lascia un livido

Nel mondo, per milioni di donne, ragazze e bambine la violenza fa parte della vita di tutti i giorni.

Sotto forma di stalking, maltrattamenti, abusi sessuali o pratiche culturali patriarcali (mutilazione dei genitali, aborti forzati, matrimoni precoci, ecc…).

Una violenza per molto tempo ritenuta socialmente accettabile, solo perché nella maggior parte dei casi accettata, e quindi invisibile.

Il dato più inquietante è che, nella maggior parte dei casi, i carnefici sono le persone che queste donne amano!

La parola “femminicidio” suona male. Però serve. A ricordare alla società che esiste un problema. Un problema che porta morte e, per chi sopravvive, dolore e paura.

Cosa si intende per femminicidio

Se si prova a cercare la parola “femminicidio” negli archivi dei giornali si scopre che essa fa la sua prima comparsa intorno al 2006-2007, per poi diffondersi sensibilmente solo negli ultimi anni.

Non che prima non si consumassero femminicidi: semplicemente, non c’era una parola per indicare il fenomeno e i singoli episodi venivano raccontati slegati l’uno dall’altro. Dare un nome alle cose significa “creare” un fenomeno.

La chiave sta nel movente

La parola “femminicidio” è stata introdotta dalla criminologa statunitense Diana Russell nel 1992, per indicare una categoria criminologica vera e propria: una violenza da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna, ovvero, un atto in cui la violenza è il risultato di una precisa cultura del possesso e della sopraffazione.

Quello quindi che distingue il femminicidio da ogni altro omicidio è il movente di genere: la donna ha messo, in qualche modo, in discussione l’idea che l’assassino aveva del suo ruolo. Si è “permessa” di tradirlo, di lasciarlo, di voler vivere una vita diversa da quella che avrebbe “dovuto”. Centrale, dunque è il ruolo degli stereotipi di genere.

Tutto ciò può essere riconducibile ad un’antica forma di dominio maschile che non si è modificata, nonostante le molte conquiste in termini giuridici, politici e sociali che il Novecento ha prodotto a favore del genere femminile.

L’immagine distorta delle donne

Più che persone siamo corpi che camminano, da guardare, commentare per strada, di cui eventualmente usufruire.

Nella pubblicità siamo confezionate ossessivamente in corpi irrealisticamente vellutati e magri, se non in versioni inespressive, isteriche, passive, ridicole.

In televisione passa, prevalentemente, l’immagine della donna oggetto: usata come richiamo sessuale di facile presa. Corpo da esposizione. Spogliata degli abiti, ma anche dell’intelligenza.

Ci hanno insegnato “Non sfiorarla neanche con un fiore”. Solo che ce ne siamo dimenticati.

 

“Gelosia” è una delle parole più ricorrenti quando giornali e tv raccontano un femminicidio. Assieme a raptus, follia, depressione, scatto d’ira, tragedia familiare, amore (magari malato, ma sempre amore).

Ingredienti che cucinati tutti insieme inducono, anche se non intenzionalmente: da un lato, a cercare un concorso di colpe da parte della vittima e, dall’altro, a giustificare il carnefice. Egli viene infatti descritto di norma come un pover’uomo follemente innamorato preso da una passione irrefrenabile, che ha agito in preda ad un “raptus”.

Insomma,l’assassino non “agisce” ma “re-agisce” ad un comportamento della vittima.

La violenza è semplice; le alternative alla violenza sono complesse.
(Friedrich Hacker)

Cambia la forma ma non la sostanza..

Basta tornare indietro di qualche secolo. Nel Medioevo, una donna non poteva litigare con il marito senza venir condannata all’immersione in acqua con lo sgabello. Pensiamo alle donne che venivano accusate di stregoneria solo perché osavano dire ciò che pensavano, o non seguivano delle regole imposte.

Non dimentichiamo poi la sottomissione e la violenza subita da migliaia di mogli e figlie, condannate al silenzio per mantenere il buon nome della famiglia.

Si tratta di un bagaglio pesante, che solo ora viene aperto e reso pubblico, risvegliando la sensibilità di molti che erano all’oscuro, o che semplicemente non volevano né vedere né sentire.

Sembra assurdo che, nel mondo di oggi, ci siano donne sottomesse ai propri compagni. Donne che subiscono violenze non solo fisiche, ma soprattutto verbali (spesso peggiori di uno schiaffo).

Eppure ci sono, e a volte sono le donne stesse a non denunciare, sperando che un giorno la situazione possa cambiare. Purtroppo, spesso e volentieri, l’attesa del miglioramento si trasforma nell’attesa della morte.

Dove sono i sentimenti?

L’uso della violenza è legata ad un aspetto molto importante della nostra esistenza: il dialogo.

Ormai siamo sempre più abituati all’era del digitale, dove ad ogni azione corrisponde una risposta immediata. Se tocco il touchscreen, succede qualcosa. Se scrivo su Messenger, mi rispondono.

Tutto ciò che facciamo ha una conseguenza immediata, quindi perché sprecare fiato tentando di comunicare, quando alzando le mani ottengo subito un risultato?

La violenza tra i giovani è un aspetto del loro desiderio di creare. Non sanno come usare la loro energia in modo creativo, così si comportano diversamente e distruggono ogni cosa.
(Anthony Burgess)

Complici, anche i social: hanno abituato le persone ad avere iterazioni brevissime (quasi della durata di un like), disabituandoli ad instaurare rapporti veri, umani.

Con la protezione dello schermo, la possibilità di apparire come si vuole senza sforzarsi, ha fatto perdere nelle persone il contatto con la realtà. E, a catena, ha fatto perdere il valore dell’educazione.

Tutto ciò ha permesso alla parte animale insita nell’essere umano di prevalere.

L’uomo tende a sopraffare la donna perché, come gli animali, solo in questo modo può comandare.

Anche alcuni nostri comportamenti avvantaggiano la violenza di genere…

Nascosti, ma a volte non così tanto, persistono atteggiamenti che banalizzano e, per quanto paradossale, sostengono la violenza sulle donne.

Nel modo in cui viene raccontata, ad esempio. Come sono riportati i fatti è molto importante, l’uso delle parole è determinante.

Perché è diverso dire “Maria è stata vittima di violenza”, oppure “Maria è stata violentata da Giovanni”, oppure “Giovanni ha violentato Maria”.

Spostiamo la colpa su chi subisce

Affermando che sono le donne a provocare, a cercarsela, a vestirsi in modo provocatorio, ad andare in giro da sole, a frequentare individui sbagliati, a fidarsi di mariti inadatti, e via con un elenco infinito di ovvietà.

Considerando l’uso dell’aggressività da parte di un uomo, nei confronti di una donna, come espressione legittima di potere, di dominio maschile. Una risposta adeguata in alcuni casi alle trasgressioni della partner.

Troviamo delle scuse

Lo scusiamo, quando pensiamo che il raptus di gelosia sia una debolezza, alleggerendo così la responsabilità dei colpevoli. Quando crediamo che gli uomini siano biologicamente impossibilitati a controllare l’impeto sessuale. Immaginando inoltre l’abuso compiuto da individui malati, strani, sotto effetto di sostanze.

La nascondiamo

Quando parliamo solo delle barbarie più clamorose, sorvolando invece sulle forme sociali ed emotive di potere e di controllo che le accompagnano. Ogni volta che non diamo attenzione ai tentati omicidi e ai suicidi legati a situazioni di abuso, o ai cosiddetti “orfani speciali” (figli di madri barbaramente uccise). Quando non affrontiamo una dimensione sommersa fatta di forme altre di violenza come abuso, sopraffazione, soggezione, terrore, disparità di trattamento.

Il coraggio non basta se nessuno interviene

Chi opera nelle istituzioni (servizi socio-sanitari, forze dell’ordine, tribunali) deve saper riconoscere la violenza, lo stalking ed i fattori di rischio.

Le donne sono messe in difficoltà, soprattutto quando la violenza viene scambiata per conflittualità di coppia. Ultimamente, i tribunali inviano coppie alla mediazione familiare anche quando la donna ha denunciato di aver subito violenza. Un tipo di percorso che deve essere assolutamente escluso in situazioni di maltrattamento!

Soprattutto, c’è la consapevolezza di una giustizia che non protegge abbastanza le donne. Tra la denuncia e l’eventuale condanna,trascorre un lasso di tempo infinito,in cui la donna rimane da sola, in balia del suo aguzzino. Non protetta da nessuno, tanto meno dalle istituzioni.

Educare al sentimento..

La spirale della violenza si può spezzare, e per farlo è fondamentale che le donne che ne sono vittime ne parlino e che se ne parli. Altrettando fondamentale è l’intervento delle autorità: servono provvedimenti tempestivi, in modo tale da scongiurare una potenziale tragedia.

La stampa e i media a questo proposito possono giocare un ruolo importante proprio in relazione alla prevenzione. Ma non solo organizzando giornate a tema. È fondamentale un’educazione al sentimento!

 Mettere l’accento sulle emozioni significa dare spazio, voce e dignità a parti che si trovano nelle fondamenta della personalità.

Quando si parla di violenza sulle donne, bisogna sentirsi davvero coinvolti, in modo da fare fronte comune per debellare questa pratica divenuta ormai una costante in una società che non riesce o non si vuole ribellare al cospetto degli eventi violenti.

Alice Mauri

 

Di  Alice Mauri leggi anche:

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