lunedì, 09 Dicembre 2024

La riforma della giustizia è un disastro annunciato, ma passerà lo stesso

Nelle ultime settimane la Ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha presentato e fatto votare in Consiglio dei Ministri la sua proposta di riforma dei processi penali italiani. Il testo è passato, il CdM compatto (circa) lo ha votato e già domenica 1 Agosto la Camera dei Deputati lo ha discusso. La data così precoce e inusuale ha sollevato il sospetto che a Montecitorio qualcuno abbia scelto – tra il lavorare la domenica ed il perdere le vacanze di metà Agosto – il male minore. Insomma, più che stakanovisti dei tempi moderni, irriducibili ferragostisti.

La riforma va ad incidere su vari aspetti della procedura penale nostrana ma la novità più importante – e soprattutto più ferocemente criticata – è quella che prevede l’introduzione dell’improcedibilità per quei processi che in Appello o in Cassazione superino determinate soglie temporali. 

La Ministra Marta Cartabia (a sinistra) ed il premier Mario Draghi (a destra). Foto da Repubblica.it

In breve: qual è il punto centrale della riforma

Partiamo dall’inizio con una precisazione: quello della Cartabia non è un testo creato ex novo. È un pacchetto di emendamenti al fu già Disegno di Legge Bonafede (dal nome del precedente Ministro della Giustizia). Tale ddl era a sua volta intervenuto sul processo penale con una serie di novità: su tutte l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.

Quello che fa oggi Cartabia, col forte sostegno del Governo, è innestarsi nella riforma Bonafede svuotandola in parte dei suoi elementi di spicco e in linea generale cercando di diminuire (drasticamente) i geologici tempi della giustizia italiana. Come? Con l’istituto dell’improcedibilità. Con la nuova riforma si prevede infatti che per tutti i reati compiuti dopo il 1° Gennaio 2020 (data in cui entrò in vigore la riforma Bonafede) che dovessero superare il primo grado e approdare in Appello o in Cassazione, cominci a decorrere un periodo di tempo massimo di 2 anni (per l’appello) e 1 anno (per la Cassazione) per terminare il processo. Se questo non succede scatta l’improcedibilità e all’imputato non potranno più essere contestati in giudizio i fatti di reato. 

Una sorta di ghigliottina, per intenderci. 

Ma ci sono alcune eccezioni

Questi stringenti limiti di tempo, a onor del vero, sono prorogabili (anche se per una sola volta e solo per alcuni reati particolarmente gravi e complessi individuati dai nuovi emendamenti). La proroga possibile sarebbe di un ulteriore anno in Appello e di ulteriori 6 mesi in Cassazione.

La riforma ovviamente non si ferma qui. In queste poche righe avrebbe però poco senso scendere nei meandri di ulteriori questioni molto tecniche e probabilmente poco incisive sul reale problema da affrontare: la durata della nostra giustizia.

Le reazioni: Gratteri, De Raho, il CsM, AnM e non solo.

Di fronte a questa travolgente novità sono state immediate (e forti) le reazioni di personaggi e organismi di spicco del mondo della magistratura. Il più duro è stato senz’altro Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catanzaro e famoso per la sua lotta in prima linea alla ‘Ndrangheta (a causa della quale vive da anni sotto scorta):

“Questa riforma della giustizia è la peggiore mai vista”. “La Cartabia probabilmente non è mai stata in un’Aula di tribunale”. “I magistrati di appello saranno contenti di questa riforma, perché diminuirà il loro lavoro. Basterà scrivere ‘improcedibile’ su un processo e il lavoro sarà finito… Finiranno al macero il 50% dei processi in appello e la faranno franca migliaia di imputati già condannati in primo grado”

Gli ha fatto eco Federico Cafiero de Raho, Procuratore Nazionale Antimafia:

“Immaginare che tanti processi vengano dichiarati improcedibili mina la sicurezza del Paese”. “…vi e’ una sorta di chiusura processuale” che “non corrisponde alle esigenze di giustizia” e che “riguarda tutti i processi” anche per “reati gravissimi” quali “mafia, terrorismo e corruzione” sui quali “l’Italia ha da sempre prestato un’attenzione specifica”. Questo aspetto, “ricade sulla sicurezza della nostra democrazia”.

Nicola Gratteri (a sinistra) e Federico Cafiero de Raho (a destra). Foto da QuotidianodelSud.it

Per la serie “si stava meglio quando si stava peggio”

Le critiche sono arrivate anche dal Consiglio superiore della Magistratura (l’organo di autogoverno della magistratura in Italia) e da Anm (Associazione Nazionale Magistrati). Il responso è unanime e in sostanza riecheggia nelle parole di Gratteri, de Raho e altri (come ad esempio Di Matteo, già pm antimafia a Palermo e oggi consigliere proprio nel CsM) che si sono pronunciati sulla vicenda. Il coro unanime sembra essere questo: giusto riformare la giustizia, giusto diminuire i tempi, ma non è questa assolutamente la strada. Anzi: meglio lasciare tutto così com’è o addirittura “tornare a prima della riforma Bonafede” come ha suggerito Gratteri.

Perché la riforma è un disastro annunciato

Pensare di risolvere il problema andando ad incidere sulle conseguenze e non sulle cause è il grave errore che Cartabia e il governo stanno commettendo. Di fronte a Tribunali ingolfati di processi, magistrati oberati di lavoro e strutture spesso inadeguate e carenti di personale, la soluzione geniale non può essere “fate più veloce oppure il fascicolo si chiude” perché le conseguenze possono essere molte, varie e tutte potenzialmente negative. I rischi sono già stati illustrati in parte da Gratteri ma vale la pena vederne qualcuno:

  • Decapitazione di un numero rilevante dei processi (50%, dice Gratteri) anche quelli già in corso di svolgimento
  • Lavoro svolto più frettolosamente (e quindi, a volte, probabilmente peggio) da magistrati ansiosi di non vedere andare in fumo il lavoro di anni.
  • Minor sicurezza per il paese: più processi si concludono con un nulla di fatto e più si rischia di lasciare imputati colpevoli a piede libero.
  • Di fronte ad un carico di lavoro sempre uguale ma con tempi ora molto più stringenti, i magistrati potrebbero essere costretti a scegliere a tavolino su quale procedimento insistere e su quale far cadere l’improcedibilità. Questo può significare maggior sfiducia nel loro operato, quindi nella giustizia e di conseguenza un pericolo per la democrazia.

Se il numero di ricorsi non scende, il problema rimane

Vista in questi termini la situazione appare cupa e sorgono alcuni interrogativi. Perché non si è deciso di intervenire sulle cause? La nostra giustizia non è lenta perché i nostri magistrati lavorano poco e male (anzi, le statistiche ci dicono che rientrano nella media di produttività europea); al contrario la causa sta nell’eccessivo carico di lavoro che ricade sulle loro spalle. Tutto questo è la conseguenza di un sistema di leggi che, unico nel suo genere ma in ottica garantista, moltiplica le possibilità di ricorso per il cittadino. Basti pensare che la nostra Corte di Cassazione affronta ogni anno circa 30 mila ricorsi a fronte delle sue corrispondenti a livello europeo che si fermano a poche migliaia.

Ma allora quali potrebbero essere le alternative?

Di fronte ad un Unione Europea che osserva come l’Italia inciderà (e ci si aspettano risultati) sul tema della lunghezza dei processi, le critiche vuote potrebbero essere considerate utili solo ad arricchire il dibattito senza però portare a risultati utili. Ma non è questo il caso e anzi diverse proposte esistono.

Alcune le fa proprio Gratteri: aumentare le assunzioni di giudici incidendo sui concorsi di magistratura; aumentare i fondi alla giustizia e alle sue strutture sul territorio; infine, soprattutto, eliminare il divieto di reformatio in peius

Cos’è? Quest’ultimo punto è meno intuitivo dei precedenti semplicemente perché attiene a questioni più strettamente tecniche eppure estremamente concrete nelle conseguenze. Il divieto di reformato in peius è un istituto che impedisce al giudice del grado successivo a quello che ha emanato la sentenza, di emettere una sentenza peggiore della precedente. Questo finisce per essere un enorme incentivo per l’imputato ad impugnare. Egli sa infatti che, male che gli possa andare, si terrà la sentenza già subita in precedenza. Ecco perché eliminare questo divieto – dice in sostanza Gratteri – potrebbe essere già un passo importante: molti imputati sarebbero a questo punto scoraggiati dal impugnare. Le impugnazioni ostruzionistiche e strumentali perderebbero forse il loro fascino se la posta in gioco fossero ulteriori anni di processo ed una possibile pena peggiore di quella già emessa.

Questo è solo un esempio di come intervenire direttamente sulle cause dell’enorme carico di lavoro che poi ha come diretta conseguenza tutto il resto e soprattutto l’inaccettabile lunghezza dei processi. 

Alfonso Bonafede (a sinistra) e Giuseppe Conte (a destra). Fonte Repubblica.it

Eppure, la riforma passerà lo stesso

È molto probabile che alla fine le pressioni di un MoVimento 5 Stelle tirato per la giacchetta da mille rimorsi non basteranno. Il Partito di Conte infatti è quello che, nel governo, vive la situazione più difficile da gestire. È il partito con la maggioranza relativa ma non più ago della bilancia di un governo in cui sembra avere meno presa dei precedenti di cui faceva parte. Di più: il ddl Bonafede era considerato un motivo di vanto da leader e comunità 5Stelle. Una riforma bandiera che rispecchiava gli ideali del MoVimento e raggiunta grazie ad un proprio Ministro di spicco. Ecco quindi che votare gli emendamenti Cartabia su quello stesso ddl significa per il MoVimento allo stesso tempo sconfessare sé stesso ed il proprio lavoro di appena poco più di un anno fa.

In questo crocevia di acrobazie ideologiche e identitarie i 5 Stelle hanno provato nelle ultime settimane a salvare il salvabile e rendere meno amara la pillola chiedendo e ottenendo in parte (ma non senza innervosire alcuni alleati di governo: su tutti Renzi e Salvini) alcune concessioni. La più importante riguarda proprio i procedimenti di mafia che non subiranno più la mannaia dell’improcedibilità; sarà infatti possibile prorogare senza limiti il tempo utile allo svolgimento del processo.

Ma le toppe non bastano

Eppure, come ben si intende, mettere toppe qua e là non risolverà il problema di fondo: l’impianto ideologico e strutturale che sta dietro alla riforma Cartabia. Basterà forse a convincere il MoVimento a votare in maniera compatta al governo (come già del resto ha infine fatto in CdM) anche in parlamento.

Con l’UE che attende risultati; i soldi del Recovery Fund che fanno gola; la forte determinazione del premier Draghi dietro agli emendamenti della ministra Cartabia ed il poco tempo che verrà concesso ad un parlamento – sempre più marginalizzato – di discutere un intervento tanto importante, c’è da scommettere che infine la riforma passerà lo stesso con buona pace delle critiche. E, forse, del buonsenso.

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Lorenzo Alessandroni
Lorenzo Alessandroni
Laureato in Giurisprudenza all'Università di Bologna, ora sono praticante avvocato di diritto penale all'ombra delle Due Torri. Amo leggere, scrivere e viaggiare, anche se poi mi limito a commentare in modo boomer cose che vedo sulla home di Instagram. In politica alterno momenti sentimentali a spinte robespierriane, nel mentre sono ancora in attesa del grande Godot italiano: un vero partito di sinistra.

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