sabato, 20 Aprile 2024

Quelle ombre dietro al Caso Diciotti

È il 20 Agosto 2018 quando la nave “Diciotti” della Guardia costiera italiana si presenta nelle acque del Porto di Catania. 

Il pattugliatore arriva dal largo delle coste di Lampedusa dove ha intercettato un barcone alla deriva con a bordo 177 persone (anche se nel linguaggio giornalistico corrente venderebbe di più la parola “migranti”) e chiede il permesso di sbarco. 

Una chiamata dal Viminale: alt.

Da Roma l’ordine è chiaro, la nave non può sbarcare. Non in un porto italiano almeno.

Ricordando quindi brevemente quella che invece è stata una lunghissima epopea per 177 persone in balìa delle chiacchiere di 28 paesi, è così che tutto è iniziato tra un “li prendi tu” – “non li prendo io” che per  giorni ha tenuto in ostaggio delle vite in quelle che sono le acque di nessuno e di tutti. 

Anche se le cronache racconteranno di una situazione che comincerà a sbloccarsi solo con le volontà favorevoli del Vaticano, dell’Albania e dell’Irlanda pronte a dividersi le persone a bordo e ad accoglierle nel proprio paese, il problema persiste.

Tutto questo da un lato è a causa della recente revisione di un Trattato, quello di Dublino (che ha visto il voto favorevole anche dei nostri partiti di Governo), il quale  ora non prevede più una ridistribuzione dei migranti in base al Pil ma anzi una loro assegnazione al Paese di sbarco; dall’altro a causa della violazione di molteplici Convenzioni internazionali, una su tutte quella di Ginevra del 1951 che sancisce il principio di “non-respingimento” del rifugiato .

I fatti sono fatti, la legge è legge: parola ai tribunali.

L’inchiesta 

Agosto non è ancora giunto al termine quando dalla Procura di Agrigento gli atti dell’inchiesta nei confronti dei membri del Governo vengono trasferiti a Palermo e da qui infine a Catania. 

E’ proprio da qui che parte la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell’Interno Matteo Salvini. A chi la richiesta? Al Senato della Repubblica, ramo del Parlamento in cui Salvini è stato eletto alle elezioni politiche del 4 Marzo 2018. 

Tutto questo accade in virtù dell’istituto dell’immunità parlamentare. La ratio, dietro a questo procedimento, non è intesa a favorire il singolo parlamentare ma il Parlamento di cui fa parte, incarnazione del potere legislativo.

Come funziona? L’articolo 68 della nostra Costituzione, che lo prevede e lo disciplina, recita: << […] Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale […] >>. 

Questo cosa significa? Che sì, è vero, il tribunale non può direttamente citare in giudizio il parlamentare,  ma che comunque non si tratta di un’immunità assoluta, come il termine potrebbe invece portare a pensare, ma anzi relativa. 

Nel caso in questione, a stabilire se sussistono gli estremi per un nulla osta a procedere, sarà quindi il Senato stesso. 

Questione di coerenza 

La situazione è particolare: un responso favorevole da parte del Senato porterebbe Salvini davanti alla Corte di Catania con i capi di accusa di sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale. 

Se alle prime voci della notizia il Ministro aveva aperto in una diretta Facebook la lettera del tribunale dichiarando di non essere per niente preoccupato da un giudizio nei suoi confronti poiché certo di aver agito “nell’interesse degli italiani”, negli ultimi tempi il vento è cambiato: non più lo scirocco di Agosto ma la tramontana di Gennaio, non più certezze ma incertezza. 

E’ così che Salvini si è rivolto alla maggioranza di governo in Senato per non dare l’autorizzazione ai magistrati di Catania. Il Ministro è conscio del fatto che una condanna in primo grado farebbe automaticamente scattare la Legge Severino (quella che per intenderci ha impedito a Silvio Berlusconi di partecipare in prima linea alle scorse elezioni) la quale prevede l’incandidabilità per soggetti condannati già in primo grado.

E sta qui, forse, un po’ il punto centrale di tutta la questione. La maggioranza a cui il Ministro fa appello è quella ovviamente del Movimento 5 Stelle che ha in uno dei suoi capisaldi proprio l’autorizzazione a procedere nei confronti di politici indagati.

La questione ha spaccato il Movimento: la scelta mette infatti i 5 stelle davanti a un bivio. Rifiutare l’appello di Salvini e quindi rischiare seriamente di far cadere il Governo pur mantenendo la fiducia del proprio elettorato, oppure accoglierlo, facendo pressioni quindi sui propri rappresentanti al Senato per votare contrariamente alla richiesta di procedimento?

Questa seconda opzione, che potrebbe far perdere tanta credibilità e consensi ad una realtà già in rilevante crisi (con sondaggi che continuano a vedere le percentuali calare a tutto favore proprio della Lega), sembra tuttavia quella che infine verrà perseguita.

Un bicchiere d’acqua sul fuoco

In questo scenario si è fatta avanti anche un’idea portata avanti dal Partito Democratico che consisterebbe in una mozione di sfiducia nei confronti di Salvini.
La nostra Costituzione, all’articolo 94 comma 5, non prevede tale possibilità parlando solamente di una sfiducia all’intero Governo: questo non costituirebbe tuttavia un problema avendo la sentenza sul Caso Mancuso del 1996 da parte della Corte Costituzionale stabilito che è possibile anche la sfiducia al singolo ministro, possibilità affermatasi in via consuetudinaria (lo stesso Mancuso, all’epoca Ministro della Giustizia nel Governo Dini, ne fece le spese). 

L’impressione però è che il Pd stia semplicemente cercando di spegnere l’incendio gettando l’equivalente di un bicchiere d’acqua sul fuoco. Non ha né numeri, né sostegno, né tantomeno l’appoggio di una fetta tale di consenso degli italiani per intraprendere un’opzione del genere.

Le ombre dietro al caso Diciotti

Ma allora si pongono alcune domande. Che ne sarà innanzitutto degli equilibri tra poteri se l’esecutivo si trova nella condizione di poter influire sul legislativo per bloccare così il giudiziario?

Che ne sarà della responsabilità della nostra classe politica se si farà passare l’idea che basta un “tutti d’accordo” all’interno del Parlamento per far diventare l’immunità da relativa ad assoluta?

Tradotto: può il Caso Diciotti rappresentare uno spartiacque tra un prima e un dopo dal punto di vista dei fragili, ma indispensabili, equilibri costituzionali? Le domande sono tante e gli scenari molteplici: in palio c’è però la tenuta del nostro ordinamento e del suo assetto liberale. Il rischio è quello infatti di far intendere che l’esecutivo può  anche non rispettare la legge, se agendo in base alla volontà dei propri elettori. 

La raccolta di firme a sostegno di Salvini e contro la magistratura, portata avanti recentemente nelle piazze di tutta Italia, sembrerebbe suggerire proprio questo.  Il messaggio è altrettanto chiaro: “se riteniamo che sia per il nostro bene non c’è legge che tenga”.

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Lorenzo Alessandroni
Lorenzo Alessandroni
Laureato in Giurisprudenza all'Università di Bologna, ora sono praticante avvocato di diritto penale all'ombra delle Due Torri. Amo leggere, scrivere e viaggiare, anche se poi mi limito a commentare in modo boomer cose che vedo sulla home di Instagram. In politica alterno momenti sentimentali a spinte robespierriane, nel mentre sono ancora in attesa del grande Godot italiano: un vero partito di sinistra.

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