sabato, 27 Aprile 2024

Che fine ha fatto Patrick Zaki?

Patrick Zaki è un prigioniero di coscienza.
Impegnato su più fronti per la difesa dei diritti umani, ha suscitato malcontento e preoccupazione da parte del governo egiziano, che lo ha accusato di crimini gravissimi come terrorismo e attività sovversive contro lo Stato.

Ad oggi tutte le accuse sono cadute, eccetto quella di diffusione di notizie false (alcune frasi scritte in difesa della minoranza copta su Facebook), che potrebbe costargli 5 anni di prigionia.
La prossima udienza sarà il 7 dicembre.

Maxi poster in Piazza Maggiore a Bologna.

La vicenda

Patrick George Zaki è nato a Mansura il 16 giugno 1991. È uno studente, attivista e ricercatore egiziano. Egli, infatti, ha fatto parte dell’associazione Egyptian Initiative for Personal Rights e ha aiutato Khaled Ali, anche lui impegnato nella difesa dei diritti umani, a preparare la propria campagna elettorale.

Tuttavia, il nome di Patrick non è conosciuto per il suo impegno sociale, quanto più per l’ingiustizia subita e perpetrata ancora oggi dal governo egiziano. Il 7 febbraio 2020, infatti, Patrick venne arrestato alle prime ore del giorno all’aeroporto de Il Cairo. Egli si era recato in Egitto per fare visita alla famiglia che non vedeva da tempo, dal momento che aveva iniziato il Master Erasmus Mundus in Women’s and Gender Studies presso l’Università di Bologna.

Furono 24 ore interminabili per la famiglia, la quale non ebbe notizie di lui. Ufficialmente la notizia venne comunicata solamente il 9 febbraio da Egyptian Initiative for Personal Rights, associazione nella quale militava.

Zaki venne descritto come una minaccia nazionale. Le prove portate a riguardo sono 10 post di un account Facebook, di cui ancora non è chiara la veridicità.

Tuttavia, se le cose stessero in questo modo e si avessero prove sufficienti riguardo la presunta pericolosità del ragazzo, il caso sarebbe già stato chiuso e non si avrebbe bisogno di posticipare di volta in volta il processo, detenendo illegalmente un cittadino.
A questo proposito le ragioni paiono più profonde.

Minaccia nazionale o vittima sacrificabile?

L’avvocato di Zaki afferma che il ragazzo sia stato interrogato riguardo la sua permanenza in Italia, il suo impegno politico e sociale e il suo legame con Giulio Regeni. Per finire, durante l’interrogatorio durato 17 ore, sarebbe stato colpito più volte e torturato con scosse elettriche. In seguito, il procuratore generale dell’Egitto Hamada el-Sawy smentì questa accusa.

Tuttavia, essa appare quanto più veritiera se ci pensa ai migliaia di casi analoghi di rapimenti e violenze perpetrate dall’Agenzia per la sicurezza nazionale (NSA).

La Procura suprema, per esempio, nega ai detenuti l’accesso agli avvocati; ergo la possibilità di difendersi. Inoltre sono stati documentati più volte i metodi violenti attraverso cui l’NSA conduce gli interrogatori.
I detenuti sono bendati, torturati e minacciati di ulteriori violenze (anche fisiche).

Non è ancora chiaro se Zaki abbia subito o meno violenze fisiche, dal momento che di lui abbiamo solo un paio di lettere inviate alla famiglia dopo essere state accuratamente ispezionate e approvate dall’NSA; e la parola del suo avvocato.
Tuttavia, quello che è certo e documentabile è la violenza psicologica perpetrata.

Patrick Zaki si trova in carcere dall’8 febbraio 2020 e non sa ancora quando uscirà, dal momento che la Procura generale ha rimandato di volta in volta il processo, per allungare quanto più possibile i tempi della detenzione, negando la sua possibilità di difendersi.

Dopo un trasferimento da un carcere all’altro, è arrivata la pandemia. Questo ha dato la scusa perfetta per rinviare ancora una volta il processo. Vane le preghiere dei genitori che supplicavano di farlo uscire il prima possibile, essendo lui un soggetto a rischio CoVid19 a causa del suo asma.

Il 21 dicembre 2020 Patrick ha dichiarato: “Sono esausto fisicamente e depresso”. 

Giulio Regeni: una storia analoga

Sistema Critico ha già parlato in un precedente articolo della vicenda di Giulio Regeni. Ad oggi le ragioni dell’omicidio e della tortura del ricercatore italiano e studente di Cambridge, appaiono ancora avvolte da un preoccupante velo di omertà. Tuttavia, quello che è scaturito dalle indagini condotte dai PM di Roma è che la Procura egiziana è complice di questo delitto.

Gli agenti incriminati sono 4, compreso il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Nessuno tra questi è stato ancora punito.

A questo proposito, è impressionante la grandezza della campagna sociale portata avanti da Amnesty International. L’eco mediatico che ha avuto in Italia e all’estero ha permesso di concludere le indagini nel minor tempo possibile, pur non avendo la collaborazione del governo egiziano.
Gli striscioni gialli con l’hastag “Verità per Giulio Regeni” sventolano nelle piazze di tutta Italia e colorano le sedi delle istituzioni.

Anche il giornale La Repubblica ha dedicato a Giulio Regeni il docufilm “Nove giorni al Cairo: tortura e omicidio di Giulio Regeni”, che racconta la storia del ricercatore italiano.

Murale a Bologna della street artist Laika.

Conclusione

“Un giorno sarò libero e tornerò alla normalità, e ancora meglio di prima.”

Patrick Zaki

Queste parole sono un grido di speranza che si unisce con quello delle migliaia di persone che hanno firmato la mozione per concedere la cittadinanza onoraria italiana a Patrick Zaki.

Le iniziative a favore della scarcerazione dello studente egiziano sono state le più svariate. Amnesty International, per esempio, ha lanciato una raccolta firme per il giovane. Si tratta di un appello al governo egiziano, affinché liberi immediatamente lo studente.

Tuttavia, si tratta di azioni singole portate avanti singolarmente dalle associazioni o dai comuni, che dopo una prima ondata di interesse collettivo, scemano nella moltitudine di notizie che riceviamo ogni giorno. Ragion per cui, se l’impegno dello Stato italiano non diverrà collettivo, i risultati resteranno deludenti e non porteranno ad alcun progresso.

Il governo deve intervenire e prendere una posizione netta su questa faccenda, anche a rischio di compromettere interessi economici già consolidati da tempo (come il redditizio commercio delle armi). Il messaggio che una vita umana non sia barattabile, così come i valori su cui si fonda la nostra democrazia, sarebbe una prova di forza all’interno dello Stato italiano e non.

Questa volta abbiamo ancora tempo per mobilitarci. Lo dobbiamo a chi crede ancora nella giustizia; ma più di tutti lo dobbiamo a Giulio Regeni e alla sua famiglia.

Sara Albertini
Sara Albertini
Sara Albertini, marchigiana, classe 1999. Positiva, sognatrice, ostinata; la musica di Einaudi accompagna il flusso dei miei pensieri. Sono laureata in “Culture letterarie europee” presso l’Università di Lettere e Beni Culturali di Bologna e attualmente frequento un master in giornalismo a Bruxelles. Scrivo di costume e società per il blog di Sistema Critico con l’illusione che la scrittura possa migliorare il mondo in cui viviamo.

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