domenica, 28 Aprile 2024

Cile, a 50 anni dal golpe

Nella mia città un giorno un giorno è morto

il sole di primavera.

Alla mia finestra sono venuti a dirmi:

vai, prendi la tua chitarra

la tua voce sarà di tutti quelli che un giorno

hanno avuto qualcosa da raccontare.

La città cantata da Luis Le-Bert è Santiago, capitale del Cile e teatro di tragedia l’11 settembre di cinquanta anni fa. A mi ciudad (1981) è un inno popolare a non arrendersi, un invito a “riconquistare” luoghi e tempi rubati, un appello a far emergere le voci dei sofferenti per dare forma a un racconto collettivo. Il trauma generato dal colpo di stato ordito da Augusto Pinochet ai danni del presidente democraticamente eletto Salvador Allende ha profondamente segnato la sensibilità di diverse generazioni di cileni e continua ad avere effetti disturbanti nel presente. Ecco perché a distanza di dieci lustri il Cile ha ancora bisogno di parole che facciano memoria di quanto accaduto, se vuole scrollarsi di dosso le atrocità di quella stagione dittatoriale.

Il primo governo marxista democraticamente eletto della storia

Il 24 ottobre 1970 il congresso cileno ratifica la nomina di Salvador Allende come Presidente della Repubblica. Con una maggioranza relativa del 36,6 per cento dei voti e in coalizione con altri sei gruppi di sinistra, il partito Unidad popular assume le redini del paese. Ed è una novità assoluta: non tanto perché ad ottenere il potere è un partito di orientamento marcatamente socialista, ma perché ciò avviene in modo pacifico e costituzionalmente regolare. L’esperimento è sotto gli occhi di tutti e per il primo anno sembra dare i frutti sperati, come dimostrato dai buoni risultati raggiunti con l’opera di nazionalizzazione di industrie private – soprattutto statunitensi – molto redditizie, come quella del rame – materiale di cui il Cile è tutt’oggi primo produttore a livello mondiale.

Il neo-eletto presidente Salvador Allende, 24/10/1970, Santiago, Cile.

A beneficiare delle misure del nuovo esecutivo sono soprattutto i ceti meno abbienti, di cui fanno parte minatori, proletari e pobladores, ovvero coloro che abitano in baraccopoli e insediamenti periferici. L’aumento dei salari e il congelamento dei prezzi giovano a molte famiglie in difficoltà, consentendo un maggiore potere d’acquisto per i consumatori e generando un rilancio economico generale del paese. Inoltre, il termometro della disoccupazione è ai minimi dell’ultimo decennio e l’inflazione, che prima del ’70 si attestava attorno al 35 per cento, ora tocca livelli decisamente più bassi e confortanti.

All’orizzonte, però, iniziano ad addensarsi i primi nuvoloni neri. In un articolo del 23 settembre 1971 pubblicato sul The New York Review of Books, lo storico Eric Hobsbawn mostra che il governo Allende avrebbe dovuto fronteggiare alcune insidie. Tra le diverse problematiche, l’autore mette in allerta l’esecutivo su possibili fratture interne alla coalizione di governo, animata da spinte estremiste con prospettive divergenti rispetto a quelle di Unidad popular.

Un sistema fragile in Cile

Alla fragilità del gruppo al potere si sommano le azioni di boicottaggio dei partiti di destra e dei loro elettori ai danni delle finanze cilene. Fughe di capitali all’estero, circuiti clandestini di denaro ed ingenti evasioni fiscali danneggiano seriamente le casse statali, facendo schizzare l’inflazione e condannando il paese a una grave crisi economica. Ad alimentare il clima di dissesto contribuisce, inoltre, l’ampia opera di propaganda controrivoluzionaria messa in atto dagli Stati Uniti per screditare l’immagine di Allende agli occhi dei cittadini. Come testimoniato dall’inchiesta del giornalista Cristopher Hitchens, infatti, ad influenzare la stampa locale è il segretario di stato americano Henry Kissinger, intenzionato a creare le condizioni per un rovesciamento politico in Cile.

«Non vedo il motivo per cui a un paese debba essere permesso di diventare marxista solo perché ha un popolo irresponsabile» – Henry Kissinger

Verbali e documenti venuti alla luce a distanza di anni, peraltro, certificano il ruolo avuto dagli Usa nell’insediamento di autoritarismi nel continente latinoamericano: la dittatura di Pinochet in Cile dal 1973 dal 1990, infatti, ammette una matrice statunitense tanto quanto quella di Alfredo Stroessner in Paraguay (1954-1989) e di Jorge Rafael Videla in Argentina (1976-1981). Muovendo i fili giusti, Washington riesce ad allontanare lo spettro del comunismo al potere e a penetrare in una regione dai grandi margini di profitto. Grazie all’appoggio di organizzazioni parafasciste, come Patria y libertad, e ad alcuni reparti dell’esercito (in particolare, aeronautica e marina), Henry Kissinger, soprannominato “il grande burattinaio”, aziona gli ingranaggi dell’operazione Condor e affida le leve nelle mani del generale Augusto Pinochet.

Il Presidente Augusto Pinochet con il Segretario di Stato americano Henry Kissinger, 1976, Santiago, Cile.

Il golpe e la dittatura in Cile

Secondo lo scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez, la scintilla decisiva a far divampare l’incendio del golpe è lo sciopero dei camionisti – categoria indispensabile per il commercio dei beni, in un paese geograficamente inadeguato alla viabilità su treno. Anni dopo saltò fuori che la Cia non aveva lesinato in premi economici nei confronti degli scioperanti. Ecco dunque il colpo di grazia per il governo di Allende, travolto da un diffuso disagio sociale e incapace di far fronte alle necessità della gente. Per i reazionari è invece il momento propizio per agire e così, fatte le dovute sostituzioni ai vertici militari, l’11 settembre del 1973 da Valparaíso un esercito ben equipaggiato si mette in marcia verso la Moneda.

Alle 9:45 rimbombano i primi colpi delle mitragliatrici dei carri armati; da uno scuro cielo presago di morte – così lo descrive Luis Sepulveda (Hotel Chile, 2023) – bombardamenti aerei semplificano il lavoro di demolizione dell’edificio. In due ore e mezza il palazzo presidenziale è ridotto in cenere, al pari degli ultimi caposaldi democratici. Poco prima di spirare l’ultimo respiro, Allende lancia un memorabile messaggio di speranza alla nazione attraverso le frequenze di Radio Magallanes:

«Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore».

Salvador Allende durante il colpo di stato, 11/09/1973, Santiago, Cile.

Tra realtà e mito

Sotto Pinochet il Cile cambia totalmente veste. Secondo Raffaele Nocera, professore di storia e istituzioni delle Americhe, si può parlare di dittatura “civico-militare”: se da un lato, infatti, è indubbio il ruolo repressivo avuto dall’esercito e dai carabineros nei confronti delle decine di migliaia di vittime torturato o uccise, dall’altro vanno considerate le riforme in ambito socio-economico, improntate a un ultra-liberalismo washingtoniano. Nel tentativo di estirpare il cancro marxista e tracciare direttive gradite alla borghesia imprenditoriale, Pinochet mette in atto una rifondazione del paese dalle fondamenta, con la promessa di riportare prosperità e benessere nella popolazione.

La verità, però, è che il successo economico tanto proclamato ha i tratti del mito: non è vero che sotto Pinochet il Cile si avvicina ai livelli del mondo avanzato. Come afferma Ricardo Ffrench-Davis in Riforme economiche in Cile, 1973-2017 (2018), infatti, se nel 1973 il Pil pro capite nel paese è del 28 per cento di quello degli statunitensi, nei successivi sedici anni nel rapporto economico con gli Usa il dato cala progressivamente fino a raggiungere il 25 per cento nel 1989.

Non solo: stando a un rapporto di French-Davis e Raczynski, un impatto negativo si ha anche nel mondo del lavoro, con un tasso di disoccupazione a Santiago che cresce dal 5 per cento del 1973 a circa il 20 per cento nella seconda metà degli anni ‘80. Per non parlare delle persone in stato di povertà, passate – secondo i dati del Ministero della Pianificazione e Cooperazione – dal 20 per cento del 1970 al 45 per cento del 1987.

Sulla base di questi numeri, molti studiosi sono concordi nel sostenere che, al netto delle riforme neoliberali messe in atto, nel periodo della dittatura il Cile non ha conosciuto lo sviluppo finanziario a lungo millantato, bensì un acuirsi delle disuguaglianze economiche e sociali.

Tra olvido e memoria

E oggi? A cinquant’anni dal golpe, il Cile deve ancora fare i conti col suo passato. Come mostrato dal The Economist, infatti, il paese è ancora infestato dai tragici eventi di quella stagione. Le incomprensibili contraddizioni della dittatura e la paura di ritornare con la mente a quei fatti di morte hanno fatto calare una cortina di dimenticanza su Pinochet e sul suo potere autoritario. Una sutura mai avvenuta pienamente, una ferita da cui continuano a fuoriuscire i mostri dell’individualismo, del razzismo e del classismo. E il sospetto che il dittatore non sia mai stato realmente sconfitto balugina se si guardano i sondaggi relativi al gradimento della popolazione nei confronti del caudillo: 18 per cento nel 2013, 36 per cento oggi.

Questa tendenza nostalgica può sembrare paradossale se si pensa che al momento in Cile governa Gabriel Boric, il presidente più a sinistra dai tempi di Salvador Allende. Quello della svolta a destra è un trend che sta prendendo sempre più piede nel paese, sospinto dal vento mediatico di un conservatorismo che conosce le insicurezze delle persone e si rivolge a loro con toni populisti molto convincenti. In questi anni, il leader del partito José Antonio Kast ha conquistato migliaia di voti grazie alla retorica sui migranti – ritenuti responsabili dell’aumento della criminalità nel paese – e alla battaglia contro l’inconsistente progressismo dell’esecutivo.

José Antonio Kast, 2019, Santiago, Cile.

Ciò che preoccupa maggiormente, inoltre, è l’ambigua posizione dell’opposizione sui fatti del ’73. A differenza dell’ex presidente Sebastián Piñera, capogruppo di un partito di destra moderata, che condannava apertamente il golpe, Kast si è limitato a compiangere le vittime, evitando di esprimere un giudizio sui loro carnefici e facendo trasparire l’ombra di un orrendo negazionismo. Quanto dovremo attendere perché in Cile si inizi a combattere una seria battaglia per la memoria?

Un pueblo sin memoria es un pueblo sin futuro

Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro. Queste parole di Allende sono di un’attualità incredibile, quasi profetiche. Per un paese piegato dai traumi del passato, l’unica via per riappropriarsi dell’identità e aprirsi dei varchi di speranza per il futuro è fare un lavoro sulla memoria collettiva. In quest’ottica, sono indispensabili i contributi di chi ha vissuto quella stagione e le testimonianze, seppur dolorose, di quella strage civile e morale. Il racconto pare essere l’unico antidoto all’Alzheimer, l’unico scoglio all’onda distruttrice del tempo.

Infine, come messo in luce dallo scrittore Ariel Dorfman in un articolo per El País del febbraio di quest’anno, va aggiunto che per vaccinarsi contro le nuove forme di tirannia non basta ricordare le atrocità del passato, ma occorre anche incoraggiare la fede popolare nella possibilità di un cambiamento nazionale: in altre parole, dare forma concreta al sogno alimentato dalla rivoluzione pacifica e democratica di Unidad popular. Per affrontare le sfide del presente, il Cile non potrà prescindere dal potente grido di allendiana memoria a lottare insieme per il bene comune. El pueblo unido, jamás será vencido!

Alessandro Dowlatshahi
Alessandro Dowlatshahihttps://www.sistemacritico.it
Classe 1998, ho conseguito la Laurea Magistrale in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano, chiudendo il mio percorso accademico con un lavoro di ricerca tesi a Santiago del Cile. Le mie radici si dividono tra l’Iran e l’Italia; il tronco si sta elevando nella periferia meneghina; seguo con una penna in mano il diramarsi delle fronde, alla ricerca di tracce umane in giro per il mondo.

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