sabato, 27 Aprile 2024

Milei non basta: all’Argentina serve una rivoluzione culturale più che politica

La storia Argentina è ricca di controversie ed il nuovo presidente, più che una rottura, segna un’evidente continuità storica e politica. Il populismo in tutte le sue forme ha permeato l’ambiente argentino a tal punto dal non creare più i presupposti per una alternativa credibile. 

Milei non basta: all'Argentina serve una rivoluzione culturale

Affacciarsi alla storia argentina significa osservare le contraddizioni e le schizofrenie di un paese che è riuscito a fare qualcosa di (drammaticamente) unico dalla seconda guerra mondiale. Fotografare il grande paese latinoamericano nel 1945, significa immergersi in una regione in piena crescita economica, che attraeva moltissimi immigrati europei in cerca di futuro. La nazione era fortemente integrata con il continente europeo, in particolare con l’Inghilterra. Di questa conteneva enormi crediti all’interno della banca centrale alla fine della seconda guerra mondiale. L’enorme serbatoio di ricchezze, tuttavia, stava per essere completamente svuotato e la cosiddetta “fiesta” stava per finire. Le nazionalizzazioni di settori strategici e le sfrenate politiche clientelari impostarono la rotta che avrebbe portato ad un declino perpetuo e logorante. 

Il 20 novembre 2023 il candidato Javier Milei, ex conduttore radiofonico dal lessico e dai modi roboanti, vince a sorpresa le elezioni. Da quel momento la maggior parte dei media italiani si è concentrata principalmente sulle provocazioni del presidente argentino. Tra le più note abbiamo la legalizzazione del traffico di organi considerata come una risorsa economica, passando per il suo spiccato interesse per l’anarco-capitalismo. Infine abbiamo nel taglio (con la motosega preferibilmente) di tutti i sussidi, la soluzione ai problemi economici.

La questione, come sempre, è più complessa di così. Ridurre quindi ad una contrapposizione tra destra e sinistra, socialismo contro liberalismo, non permette di comprendere la crisi argentina. Quello a cui siamo di fronte è un fenomeno che l’Argentina conosce molto bene. Possiamo identificarlo come la fine di un populismo, quello neo-peronista, che rinasce in un nuovo populismo libertario radicale portato avanti da Javier Milei. Se è stato possibile per il nuovo presidente stravincere le elezioni, lo si deve alla stanchezza dell’elettorato davanti a tutte le promesse mancate negli anni. A queste si aggiunge l’altissimo livello di corruzione che i governi precedenti hanno lasciato in eredità in tutti i ministeri governativi. Riferendomi a questa “eredità disastrosa” intendo come al lato economico si aggiungono una comunicazione ed un dibattito politico che favoriscono fenomeni di reflusso come, oggi, Milei

La contrapposizione fra noi e loro, tipica dei populismi e sempre presente in Argentina, ha portato il dibattito in una morsa da cui è impossibile divincolarsi. Le sparate di Milei sulle privatizzazioni, tanto estreme quanto pericolose, seguono decenni in cui le tasse sono state pagate da una risicata minoranza, che ha visto i propri risparmi calare a fronte di servizi sempre meno efficienti. Le altrettanto drammatiche dichiarazioni che ammiccano ai bei tempi andati della dittatura, si possono spiegare solo alla luce di un contesto estremamente polarizzato. I precedenti governi hanno rivendicato una sorta di monopolio nei confronti di questi diritti, arrivando a beatificare i vecchi guerriglieri argentini e mostrando solidarietà con i più inquietanti dei personaggi politici: da Putin a Maduro passando per Castro e fino ad Ortega. 

La logica conclusione sta nella comprensione della realtà argentina. Una realtà fatta di irrazionalità e di un tessuto elettorale facilmente permeabile dai populismi di qualsivoglia forma, da quelli retorici a quelli finanziari. Questo circolo vizioso partorisce mostri che uccidono i precedenti, mantenendo tuttavia un sostanziale regno del caos che sembra non finire mai. 

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